Netanyahu forma un governo di "necessità" nazionale
Dopo la sua vittoria del 17 marzo, Benjamin Netanyahu forma un governo sostenuto da una maggioranza risicata, dopo lo strappo del suo alleato Avigdor Lieberman. Ora gli restano alleati solo i partiti religiosi e nazionalisti, con una maggioranza di 1 solo seggio. L'Autorità Palestinese ne approfitta per lanciare la sua campagna anti-ebraica.
All’indomani delle elezioni politiche del 17 marzo, quando ancora non se ne conoscevano i risultati definitivi ma si era delineata, contro tutte le previsioni di una campagna mediatica ostile, la vittoria inequivocabile del suo partito, Benjamin Netanyahu prometteva un governo “abbastanza forte e stabile in grado di garantire sicurezza e benessere a tutti i cittadini”. Sarebbe stato il quarto da lui presieduto, un primato che neanche il fondatore dello stato, Ben Gurion, poteva vantare. Vedeva premiata la sua decisione di sciogliere anticipatamente la legislatura proprio per realizzare quel programma nazionalista che i partiti della coalizione di centro non gli avevano consentito; ancorché potesse vantare innegabili successi di stabilità finanziaria e di crescita economica che giustamente gli osservatori più attenti gli accreditavano per raccogliere un vasto consenso.
Al momento però di fare i conti – difficili da far quadrare nel sistema proporzionale puro, caratteristico della democrazia israeliana – “Benny” si è trovato dinanzi a inattese difficoltà. Non che mancassero i voti per riunire una coalizione di partiti di destra e confessionali: sulla carta ce n’erano abbastanza (67 su 120) per una tranquilla maggioranza parlamentare ma, al termine di estenuanti trattative, non è riuscito a coagularli, Lo strappo è avvenuto il 4 maggio, due giorni prima che scadesse il limite fissatogli dal mandato ricevuto dal capo dello stato Reuven Rivlin per la formazione del nuovo governo. Quella sera uno dei suoi alleati di sempre, Avigdor Lieberman, il russofono leader del partito Yisrael Beitenu, lo ha abbandonato in malo modo.
Rimettendogli l’incarico di ministro degli Esteri – che manteneva nel governo a interim – ha detto subito ai giornalisti che il negoziato per la partecipazione del suo partito al nuovo governo era finito “per questioni di principio, non di poltrone”. E senza ritegno sparava a zero, accusando Netanyahu di “opportunismo”, ovvero di aver rinunciato a quelle scelte qualificanti di una politica nazionalista che avevano fatto finora da collante. Non saranno più costruiti nuovi insediamenti di coloni in Cisgiordania, ha detto, non sarà riproposta la legge sul carattere nazionale ebraico dello stato, non si farà abbastanza per estirpare dalla striscia di Gaza i “terroristi” di Hamas, ovvero i fondamentalisti islamici che lottano a oltranza per la distruzione di Israele.
Con la defezione di Lieberman a Netanyahu restavano due opzioni: realizzare comunque una coalizione con gli altri partiti della destra nazionalista e confessionale – Kulanu, Casa Ebraica, Shas e Giudaismo e Torah Uniti – e affrontare la legislatura con la risicatissima maggioranza di un seggio (61 su 120); ed è stata l’unica strada percorribile. Oppure tentare in extremis la formazione di un governo di unità nazionale, con l’Unione Sionista guidata dal laburista Isaaac Herzog e dalla centrista Tzippi Livni. Ipotesi però che aveva scartato fin dall’inizio del suo mandato. Ha stretto l’accordo con il partito “Casa Ebraica” di Naftali Bennett, (proveniente dal Likud e ben votato dai coloni di Giudea e Samaria) assegnandogli l’ambito dicastero della Giustizia e accordandogli quelli, non meno importanti, dell’Educazione e dell’Agricoltura. Sciolta la riserva al capo dello Stato, lunedì si presenterà alla Knesset per raccoglierne la fiducia.
E si vedrà dal discorso programmatico se troveranno conferma le accuse rivoltegli da Lieberman; si vedrà anche come questi e gli altri cinque deputati del suo partito voteranno perché c’è chi giura che potrebbero astenersi e i loro sei voti in seguito essere recuperati. Al momento la promessa di un governo “forte e stabile” appare disattesa perché tale non può esserlo con un solo voto di maggioranza. Il leader dell’opposizione Herzog ha potuto così affermare che la nuova coalizione è “la più debole, ristretta ed estorta della storia israeliana” aggiungendo che Netanyahu ha dato “più importanza alla sua sopravvivenza politica che al bene della nazione”. Ma egli non sarebbe mai riuscito a formare un governo, neanche con l’irrealizzabile sostegno della Lista Araba Unita (con i suoi 13 deputati espressi dalla minoranza della popolazione, per la prima volta terza forza politica di Israele ma divisa profondamente su programmi e obiettivi politici).
Un Netanyahu che fa quindi leva sulla “necessità” di dare un governo al paese, ammantandosi della “virtù” del compromesso per ricucire innanzi tutto i rapporti con gli Stati Uniti. Rapporti deterioratisi, come mai prima, per i contrasti con il presidente Obama soprattutto sul riarmo atomico dell’Iran ma anche sul proseguimento degli insediamenti di coloni, pretesto questo ostentato con insistenza dai palestinesi per rifiutare il proseguimento di quel negoziato di pace, sul quale puntava Obama per conseguire l’unico successo possibile in una disastrosa politica estera. Netanyahu deve riportare la maggiore serenità possibile nelle relazioni con gli Stati Uniti e acquietare nello stesso tempo gran parte della potente diaspora ebraica filo-democratica, più che filo-repubblicana.
Il momento è molto delicato e di serie apprensioni in tutto il Medio Oriente (e non solo) per l’espandersi dell’estremismo islamico e del suo Califfato. A Gaza si sono presentati con un attentato terroristico ad una stazione di polizia e con un ultimatum i cosiddetti “Sostenitori dello Stato Islamico a Gerusalemme”, affiliati all’Isis, chiedendo ai fondamentalisti di Hamas, al potere nella Striscia, la scarcerazione di alcuni palestinesi salafiti, ovvero rigidi osservanti dei precetti islamici. Proprio questo è il momento scelto dall’Autorità Nazionale Palestinese e dal suo presidente Abu Mazen per intensificare al massimo i tentativi di isolamento, denigrazione e delegittimazione di Israele, rappresentato come “il paese dell’apartheid” e boicottando tutto ciò che è legato allo Stato ebraico, dai prodotti agricoli e industriali agli scambi universitari, e adesso fino alla richiesta alla FIFA di escludere la nazionale di calcio israeliana dai tornei sportivi internazionali.
La campagna antiebraica, riassunta dalla sigla BDS (boicottaggio, disinvestimenti, sanzioni) e dalle connotazioni fortemente antisemite, rende oltre tutto più difficile quella convivenza pacifica di israeliani e arabi palestinesi, cercata finora invano oltre che da Israele da tutta la comunità internazionale. Essa registrerà presto nuovi momenti di tensione in vari organismi delle Nazioni Unite per il disegno dell’ANP di ottenere da essi il pieno riconoscimento dello Stato palestinese che non è riuscita a conseguire nei decennali negoziati di pace. In questi frangenti Netanyahu ha bisogno del “veto” degli Stati Uniti per bloccare in Consiglio di Sicurezza le iniziative palestinesi, sostenute dai paesi arabi e da molti altri, inclusi alcuni europei.