Netanyahu contro Gantz, la sfida sul futuro di Israele
Martedì prossimo gli israeliani tornano alle urne per le elezioni anticipate. Regna la completa instabilità politica e ci saranno sicuramente sorprese. Netanyahu, premier in carica, è sfidato soprattutto dall'ex generale Gantz. In gioco ci sono temi importantissimi, quali l'annessione della valle del Giordano e la laicità dello Stato ebraico
Le sorprese cosiddette “dell’ultima ora” hanno scombussolato, in alcune elezioni politiche svoltesi dal 2006 in Israele, concordanti previsioni e sondaggi di voto. Sarà lo stesso per quelle di martedì prossimo? Gli elettori sono chiamati, per la seconda volta quest’anno, a dar vita ad una legislatura – la ventiduesima dalla nascita dello Stato – che possa esprimere la stabile maggioranza di un governo. La ventunesima, uscita dalla consultazione del 9 aprile scorso, non ce l’ha fatta. Meglio, il primo ministro Benjamin Netanyahu, pur disponendo dei 35 seggi acquisiti dal suo partito Likud e sulla carta di una promettente maggioranza di destra, non è stato capace di coagularla e, per non uscirne ed evitare “tradimenti”, ha preferito affrontare di nuovo le urne.
Con tutti gli imprevisti e i rischi di un’elezione. Così per neutralizzarli, e puntando a conseguire maggiori consensi, ha giocato in TV a reti unificate (la sera di lunedì scorso, sette giorni prima della consultazione del 17 settembre) la carta di una grande, quanto inattesa, promessa: “Se sarò rieletto annetterò immediatamente la valle del Giordano”. Prefigurando, è sembrato capire, un referendum dei coloni per “completare a oriente lo scudo di difesa di Israele”. Chiaro invece il tentativo di convincere gli indecisi, smuovere i tiepidi, stanare gli astensionisti: “Non perdiamo questa storica occasione. Oggi o mai più”. Ovvio riferimento ai felici rapporti con Donald Trump, il presidente gli Stati Uniti che ha riconosciuto Gerusalemme capitale, spostando la sua ambasciata da Tel Aviv; e non dimenticando le delusioni dei precedenti anni dategli da Barack Obama.
Non poteva non seguire, immediata, la reazione ostile dei palestinesi, per i quali questi «sproloqui» di Netanyahu hanno affossato le loro speranze di pace. Alle quali Netanyahu non ha mai creduto. Come non ci credono più parecchi israeliani suoi avversari, e fra questi il celebre scrittore Abraham Yehoshua. Una recente sua intervista lo mostra convinto dell’impossibilità di sostenere la tesi – proposta dalla comunità internazionale – di due Stati indipendenti separati, l’israeliano e il palestinese e invece della realistica idea di dar vita a uno Stato bi-nazionale, basato però sul riconoscimento dei diritti della minoranza palestinese. Fra le sue ragioni: il confine tra i due Stati sarebbe troppo frastagliato; nessun governo israeliano accetterebbe di ritirarsi da tutti gli insediamenti; non si può dividere la città capitale, Gerusalemme. Riconosce tuttavia il grande impedimento: per gli ebrei “religione e appartenenza allo Stato sono la stessa cosa”; e fin dall’epoca di Mosè, afferma.
Questa immedesimazione è stata esaltata dalla legge sullo “Stato nazione” voluta da Netanyahu e approvata dalla Knesset il 19 luglio dell’anno scorso, che tuttavia continua a dividere la nazione. E come lo scioglimento anticipato della passata legislatura era avvenuto con l’uscita dalla coalizione di destra del partito Israel Beitenu (Israele nostra casa) del russofono Avigdor Lieberman per il mancato accoglimento della proposta obbligatorietà del servizio militare per gli ultra-ortodossi, e come le divergenze tra laici e religiosi di destra avevano impedito a Netanyahu di riaggregare i loro partiti, usciti vittoriosi dalla elezioni dello scorso aprile, così la vexata quaestio non poteva non essere al centro dell’ultima battaglia elettorale.
Portando in evidenza che mentre la nuova legge impone il rispetto delle festività ebraiche e dei “giorni della memoria”, riconosce l’ebraico come unica lingua nazionale, considera “come valore nazionale lo sviluppo degli insediamenti”, contraddice però la Dichiarazione di indipendenza del 15 maggio 1948 che assicura completa uguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i cittadini della nazione, indipendentemente dalla loro religione, razza e sesso. E non sono stati soltanto i partiti della sinistra e della minoranza araba a rimarcare questa contraddizione, ma anche figure emergenti della destra (anche non ebrei come la drusa Gadeer Kamal Mreeh): ecco perché la “stella in ascesa” Ayelet Shaked, 43 anni, leader del partito HaBayit HaYehudi (Casa Ebraica), già ministro della Giustizia nel governo Netanyahu, spera di diventare l’ago della bilancia della prossima legislatura.
A raccogliere i maggiori consensi saranno, prevedono i sondaggi, il Likud di Benjamin Netanyahu e Kahol Lavan (Blu e bianco, i colori della bandiera nazionale) di Benny Gantz, ex capo di Stato Maggiore come gli altri suoi esponenti Moshe Ayalon e Gabi Ashkenazi (ma nelle sue liste vi sono altri quattro generali e tre colonnelli in congedo). Forze antagoniste, ma poli di attrazione dell’elettorato, uno erede della più ortodossa tradizione nazionale, l’altro per il sentimento di sicurezza che le forze armate hanno sempre interpretato. Entrambi vinsero le elezioni di aprile con lo stesso numero di seggi alla Knesset, 35 ciascuno. Cosa accadrà martedì prossimo?
È questo il principale interrogativo. Ma in sospeso (per il sistema proporzionale puro) vi sono i risultati dei partiti minori che, sia a destra sia nella minoranza araba, hanno proceduto a fusioni o al ripristino di coalizioni per assicurarsi un maggior numero di seggi, quelli sognati ma in realtà svaniti nelle elezioni dello scorso aprile (la soglia di esclusione è attestata a quota 3,25 % dei consensi). Non dovrebbero subire spostamenti di voti, e di rappresentatività parlamentare, i partiti religiosi, sia sefarditi, sia ashkenaziti, decisivi nella formazione di governi di destra. Novità invece a sinistra, sia per il rimescolamento al vertice del partito laburista (con il ritorno alla guida di Amir Peretz) e, sempre nell’intento di superare la crisi di consensi, la fusione con i centristi del Gesher (Ponte); sia per la nascita del Campo Democratico (HaMahaneh HaDemokratit) che vede riuniti il Meretz (estrema sinistra sionista) e il nuovo partito Democratico (Israel Demokratit) creato dall’ex capo di Stato Maggiore ed ex premier laburista Ehud Barak e dall’ex deputato laburista Stav Shaffir.
Se l’inatteso rientro in politica di Barak ha creato un motivo di attesa sul suo esito, lo schieramento elettorale ha mostrato, come tendenza, una migliore rappresentatività dell’eterogenea società israeliana anche se la composizione delle liste ha fatto emergere una sottorappresentanza di donne (se ne prevede l’elezione di una trentina di deputati su 120), di giovani (in aprile ne erano stati eletti sette di età inferiore a 35 anni), di ebrei russi e di non ebrei.
Certo ha avuto rilevanza nella campagna elettorale la conflittuale realtà ai confini della nazione e quella, non meno preoccupante, nella regione dilaniata dalla rivalità tra musulmani sunniti e sciiti. Se n’è fatto portavoce, ed assumendosene pure le responsabilità di governo, Benjamin Netanyahu, tenendo soprattutto vivo l’allarme per la crescita della potenza nucleare dell’Iran, un pericolo per gli equilibri mondiali, non solo regionali. E reagendo militarmente alla ormai cronica aggressività dei palestinesi di Gaza (impegnati dai fondamentalisti di Hamas, colà al potere, a violare il confine meridionale con Israele, provocando aggressioni ai soldati e incendi per chilometri quadrati di campi coltivati) e a quella, non meno irritante dei miliziani sciiti Hezbollah lungo il confine settentrionale del Libano (pur “presidiato” da migliaia di soldati dell’Onu). Non solo, ma intervenendo anche con raid, aerei e missilistici, nella vicina Siria, ancora teatro di confronto fra grandi Potenze.