Nessuna "mafia capitale": i fini di un processo mediatico
La stampa aveva già dato la sua sentenza rendendo gli imputati colpevoli di "associazione di stampo mafioso" prima ancora che iniziasse il processo. Invece la sentenza di primo grado parla di "associazione a delinquere". Purtroppo però, grazie alla manipolazione e all'ingerenza mediatica, nell'immaginario mondiale l'Italia resta una nazione governata da "poteri occulti". Tutto solo per legittimare un altro potere: quello del gruppo La Repubblica/l'Espresso
Il processo per la cosiddetta “Mafia capitale” si è concluso a Roma in primo grado con una condanna rispettivamente a 20 e 19 anni di carcere per i due principali imputati, Massimo Carminati e Salvatore Buzzi. Il tribunale ha però ritenuto i condannati colpevoli di “associazione a delinquere” ma non di “associazione di stampo mafioso”. Si è trattato dunque di un caso, seppur grave, di “normale” delinquenza, di ruberie di appaltatori disonesti: episodi che purtroppo ricorrono da secoli nella storia della Città Eterna.
Come a molti altri osservatori anche a noi era apparso subito evidente che nel caso in questione non si poteva parlare di mafia né di ‘ndrangheta. La procura di Roma invece lo pretendeva e la stampa ci aveva dato dentro attribuendo alla vicenda il soprannome di “Mafia capitale”. Così dal 2014 a oggi ha fatto il giro del mondo l’idea che l’amministrazione comunale della capitale italiana fosse in mano alla mafia. E non è detto che la sentenza cui ora si è giunti sia sufficiente a rimediare al danno già provocato.
Non da oggi, ma ormai da decenni, ogni volta che in qualche vicenda giudiziaria entrano in ballo le parole mafia, ’ndrangheta, camorra e simili, scatta a priori nel nostro Paese la presunzione assoluta di colpevolezza. Non importa se poi la sentenza smentisce l’accusa. Secondo la “razza padrona” dell’informazione in Italia ciò semplicemente significa che mafia, ’ndrangheta, camorra e così via hanno in un modo o nell’altro dettato la sentenza ai giudici.
Grazie al concorde sostegno di intellettuali, commentatori e gruppi di potere editoriale, da lungo tempo è stata accreditata l’idea dell’esistenza in Italia di un livello occulto di potere politico oscuro (ieri la dc di Andreotti, oggi l’ambigua galassia degli amici di Berlusconi) che domina avvalendosi della collaborazione violenta di mafie potenti se non onnipotenti. A causa di ciò nei tribunali mai giustizia verrebbe fatta, ma in fondo non importa. Più di essi contano infatti le sentenze mediatiche degli Illuminati. E il bello è che tra i più autorevoli propagatori di questa tesi non mancano noti magistrati e alte autorità come il presidente del Senato Piero Grasso, ossia non un ometto qualsiasi bensì un personaggio che ha avuto e ha in mano tutti i poteri e gli strumenti che bastano e avanzano per chiarire la situazione.
E che dire poi di Sergio Mattarella che in quanto presidente della Repubblica presiede tra l’altro il Consiglio superiore della Magistratura, Csm, ed è comandante in capo delle Forze Armate, tra cui i Carabinieri? Parlando dinnanzi al “plenum” del Csm, in occasione dei 25 anni dall’assassinio a Palermo del giudice Paolo Borsellino, Mattarella ha detto fra le altre cose che "troppe sono state le incertezze e gli errori che hanno accompagnato il cammino nella ricerca della verità sulla strage di Via D'Amelio, e ancora tanti sono gli interrogativi sul percorso per assicurare la giusta condanna ai responsabili di quel delitto efferato". E a noi lo dice? Chi altro più di lui ha i poteri e i mezzi per chiarire quelle incertezze e per rimediare a quegli errori?
In quanto tale, la stessa affermazione dell’esistenza di tale livello occulto è un vero e proprio “vulnus” della nostra democrazia. Serve infatti ad un centro di potere non democratico ma nient’affatto occulto, quello che fa capo un giornale-partito come la Repubblica, per autolegittimarsi come potere legittimo. Da qualche tempo a questa parte tale ideologia giustificativa dispone pure di un nuovo strumento: i sondaggi basati sulla cosiddetta percezione. Si chiede alla gente che cosa “percepisce” di una certa cosa e poi si spacciano le percezioni per dati di fatto. Quando, come nel caso del gruppo la Repubblica/l’Espresso, si ha la forza di decidere che cosa fa notizia e che cosa no, quello della “percezione” è un grimaldello che va bene per tutto. Facciamo l’esempio della corruzione che, in base ai dati certi di cui si dispone, in Italia non è affatto maggiore che in altri Paesi europei di analogo grado di sviluppo.
Se, avendone la forza, si fa una bella campagna lanciando l’idea che l’Italia sia il Paese più corrotto dell’Ue, se non del mondo, e subito dopo si lancia un bel sondaggio sulla “percezione” in materia, si può essere certi che la “percezione” sarà quella voluta da chi ha lanciato la campagna. Dopo di che c’è materiale pronto per rincarare la dose, a patto di non far sapere ai lettori che la domanda successiva di questi sondaggi, ossia “lei ha avuto diretta esperienza o notizia di un caso di corruzione?”, fa poi sempre registrare un crollo della risposta affermativa.