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LIBERTA' RELIGIOSA/34

Nessuna libertà per i cristiani in Gibuti

Il paese è sotto il controllo totale delle autorità islamiche che decidono su ogni aspetto della vita civile e spirituale dei cittadini.

Attualità 26_11_2011
Gibuti

Gibuti, situata nel Golfo di Aden, confina a nord con l’Eritrea, a ovest con l’Etiopia e a sud con la Somalia, mentre a est è bagnata dal Mar Rosso. Fa parte, insieme alla Somalia, all’Etiopia e al Kenya, del Corno d’Africa, dove vivono 13 milioni di persone che hanno bisogno di assistenza umanitaria.

Divenuto indipendente dalla Francia nel 1977, il paese - che ha importanza strategica militare per la sua vicinanza al Canale di Suez; come pure per la prossimità al Corno d’Africa e al golfo di Aden, base dei pirati somali - è stato governato per ventidue anni dal presidente Hassan Gouled Aptidon, che fino al 1992 non ha permesso il multipartitismo. Fino alla fine degli anni ’90, Gibuti è stato teatro delle tensioni tra le comunità Issa (60% della popolazione) e Afar (35%).

Il controllo pressoché totale del potere da parte dei primi ha spinto gli Afar a prendere le armi nel 1991, in una guerra civile che si è trascinata fino al febbraio del 2000. Aptidon ha ceduto alle pressioni interne e nel 1992 ha adottato una nuova Costituzione che consente il multipartitismo e nelle successive elezioni parlamentari il suo partito ha conquistato la maggioranza. Nell’aprile del 1992, Aptidon ha ceduto il testimone a Ismail Omar Guelleh, eletto nel 2000 e nell’aprile del 2005.
La religione di Stato è l’Islam, ma la Costituzione riconosce la libertà di professare qualsiasi fede, anche se il proselitismo e la conversione dei musulmani sono scoraggiati, sebbene non proibiti. Su una popolazione di 880mila abitanti, i cattolici sono 7mila.

I gruppi religiosi devono registrarsi. Ai gruppi missionari stranieri occorre l’autorizzazione del governo per istituire scuole. Il Ministro per gli Affari Islamici ha autorità su ogni questione in materia: dalla realizzazione e gestione di moschee e scuole private religiose, agli eventi religiosi.
Appositi tribunali applicano la legge islamica (Shari’a) ai musulmani in materia di matrimonio, divorzio, figli, eredità. I non islamici vanno invece davanti alle corte civili, che applicano la legge statale. Il matrimonio civile è consentito solo tra cittadini stranieri non islamici. L’art. 23 del Codice di Famiglia proibisce alle donne musulmane di sposare un non islamico.

L’Istituto di Diritto Pontificio “Aiuto alla Chiesa che soffre”, nel suo rapporto sulla libertà religiosa, dà conto che nel marzo 2009, il tribunale di Gibuti, al termine di una rapida udienza, ha condannato don Sandro De Pretis, vicario generale della diocesi di Gibuti - l’intera diocesi all’epoca aveva tre sacerdoti per oltre settemila fedeli - per “detenzione di materiale pornografico” a 3 mesi e 4 giorni di carcere. Il 16 aprile del 2009 il sacerdote è stato espulso dal Paese dopo avervi soggiornato per 17 anni.

Fu arrestato il 28 ottobre 2007 senza alcuna accusa, poi è stato accusato di pedofilia. Ma il capo
d’accusa è cambiato per sei volte, fino alla condanna detentiva, che corrisponde esattamente al periodo trascorso in carcere (dal 28 ottobre 2007 al 21 febbraio 2008). Dopo tale periodo, è stato agli arresti domiciliari.

I media hanno parlato di accuse pretestuose. Don De Pretis ha detto che ignora le ragioni per cui è stato attaccato, seppure ritiene di essere stato vittima dei rapporti tesi tra il governo locale e il governo francese, che ha visto una lunga campagna sulla stampa nazionale con attacchi anche contro la Chiesa cattolica. Il vescovo, mons. Giorgio Bertin, francescano, amministratore apostolico di Gibuti e Mogadiscio, ha sempre difeso con sicurezza don De Pretis e durante la detenzione ha parlato di processo politico.

Nello scorso mese di luglio, Mons. Bertin, in un’intervista all’agenzia Cisa - rilasciata a margine della 17.ma assemblea plenaria dell’Amecea, l’Associazione delle Conferenze episcopali dell’Africa Orientale - ripresa da Radio Vaticana, ha dichiarato che “la presenza della Chiesa in Somalia e a Gibuti è stata quasi del tutto distrutta in questi due decenni e sopravvive con qualche opera umanitaria”.Il vescovo ha evidenziato che la guerra e l’insicurezza hanno reso ormai impossibile l’opera di evangelizzazione nei due Paesi del Corno d’Africa e che, a causa del diffondersi del fondamentalismo islamico alimentato prima dal regime iraniano e adesso da Al Qaeda, i rapporti tra cristiani e la maggioranza musulmana non solo facili. Questo, peraltro, non ha impedito l’instaurarsi di rapporti “abbastanza fraterni” e di conquistare anche la stima di alcuni musulmani, ma, ha spiegato il presule, “il problema si pone con chi non ci conosce, che è la maggioranza”. Un altro problema, è rappresentato dalla mancanza di sacerdoti che oggi sono appena tre a Gibuti. In tutta la Somalia si conta una sola parrocchia e fuori dalla città di Gibuti ci sono quattro stazioni missionarie con qualche religiosa. Nella maggior parte dei casi i sacerdoti, tutti stranieri, restano per poco tempo: “I sacerdoti che vengono da noi – ha spiegato mons. Bertin - non sono abituati a vivere in un contesto musulmano in cui l’attività pastorale tra i cristiani è pressoché nulla”.