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FINE VITA

Neonato da Bristol a Roma per operazione salvavita, s'apre una breccia nel sistema inglese

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Ha già superato il primo intervento chirurgico D.M., il bambino di un mese affetto da una grave patologia cardiaca trasferito il 24 aprile da un ospedale britannico - che non intendeva operarlo - al Bambin Gesù di Roma, grazie anche all'intervento del governo italiano. 

Vita e bioetica 27_04_2024 English

Il bambino di un mese con una grave malformazione cardiaca, trasportato con un volo militare in Italia per un intervento chirurgico salvavita dopo che i medici del NHS Bristol Royal Hospital for Children avevano detto che non era “adatto” a subire un'operazione, «sta bene», dice il papà. Il bambino, figlio di un cittadino italiano e di una madre di origine nigeriana, è arrivato all'ospedale pediatrico vaticano Bambin Gesù di Roma nella tarda serata di martedì 24 aprile e il giorno successivo è stato sottoposto con successo alla prima delle due operazioni programmate per una patologia cardiaca congenita. Dopo l'operazione, i medici italiani hanno detto che «sta lottando» e «vuole vivere».

Una settimana fa, i medici dell’ospedale di Bristol avevano comunicato alla famiglia, cattolica, che secondo i protocolli medici britannici il figlio era troppo malato per essere operato. Questo ha spinto il padre a scrivere all'ospedale vaticano chiedendo di farsi carico delle sue cure. Una richiesta separata è stata fatta tramite l'avvocato italiano della famiglia, Simone Pillon, al governo italiano, chiedendo assistenza per il suo trasferimento. Il Presidente del Consiglio italiano Giorgia Meloni, ha riferito Pillon, è stata direttamente coinvolta nella trattativa per far volare il bambino su un aereo cargo militare appositamente attrezzato con un'équipe medica completa.
La notizia e la foto dell'ambulanza appositamente attrezzata che viene caricata nella stiva dell'aereo militare italiano prima del decollo per Roma hanno fatto il giro del mondo.

Certamente, il trasferimento coronato da successo di D.M. (come viene chiamato il bambino su richiesta dei genitori che desiderano rimanere anonimi) è una vittoria per la vita e quindi motivo di grande festa. Soprattutto perché, come ormai tutti sanno, non è questo l'esito tipico dei casi di fine vita nel Regno Unito, che anzi si concludono quasi sempre in tragedia. Non possiamo dimenticare che solo cinque mesi fa i giudici britannici hanno rifiutato a Indi Gregory, affetta da una rara malattia mitocondriale, il permesso di lasciare l'Inghilterra per ricevere cure salvavita presso lo stesso ospedale vaticano di Roma. Anche nel suo caso, il governo italiano e il suo Presidente del Consiglio si erano direttamente coinvolti e i medici del Bambin Gesù avevano accettato di curare la piccola Indi senza spese per il Regno Unito. La bambina è invece stata fatta morire per soffocamento in un hospice dopo che le sono stati tolti i sostegni vitali.

Ed è difficile pensare che il caso di D.M. segni una vera inversione di rotta nell’atteggiamento di medici e giudici britannici. Infatti proprio in questi giorni, a Londra, un altro caso di fine vita che riguarda un bambino di quattro anni è finito davanti a un tribunale.  Il piccolo, nato sordo e cieco, è tenuto in vita al King's College Hospital dall'anno scorso dopo aver subito due attacchi cardiaci causati da una grave infezione cerebrale. Il 24 aprile, il giudice Poole ha stabilito che i medici possono togliere al bambino i supporti vitali.
Nella sua sentenza, il giudice ha affermato che «non dovrebbe essere costretto a vivere», anche se, ironicamente, stava costringendo il bambino a morire. La sua famiglia, cattolica praticante, ha detto al giudice Poole che il loro «figlio era un dono di Dio». E anche loro avevano fatto richiesta all'ospedale vaticano per prendere in carico D.M., ma come era già successo per Indi il trasferimento è stato negato dai tribunali.

Abbiamo chiesto a Simone Pillon, che ha contribuito al trasferimento a Roma di D.M. ed era stato coinvolto anche nel tentativo fallito di trasferire Indi Gregory, un giudizio su questo modo apparentemente arbitrario con cui vengono gestiti questi casi di fine vita. Secondo Pillon, l'esito positivo del caso di D.M. è dipeso soprattutto dal tempismo: «Essenzialmente, le trattative per il trasferimento del bambino hanno avuto luogo prima che il caso finisse in tribunale - ha detto -. Questo ha facilitato un dialogo costruttivo che ha permesso di sviluppare un protocollo consensuale per il trasferimento e la convalescenza del bambino in Italia». E certamente per l’esito positivo è stata fondamentale la rapidità con cui entrambe le parti hanno accettato le modalità di trasferimento. Infatti per lunedì 29 aprile era già programmata la prima udienza in tribunale, che avrebbe probabilmente aperto la strada a un esito diverso. «Siamo riusciti a evitarlo», ha detto Pillon. Egli spera che questa vicenda diventi un precedente per eventuali casi futuri: «Il Regno Unito ha visto il livello di competenza medica di cui è capace il servizio sanitario italiano», ha aggiunto. Ma ha anche ammesso che i casi sono determinati anche dalle convinzioni individuali dei medici ospedalieri e, in ultima analisi, dei giudici.

Ma c'è un altro fattore che va considerato e che costituisce il filo rosso di tutti questi casi di fine vita: il modo in cui nel Regno Unito viene valutata la vita a seconda delle circostanze e il potere di vita e di morte che lo Stato pretende di esercitare sui suoi cittadini se sono disabili. I genitori di D.M. hanno confidato di essere stati invitati ad abortire il loro figlio a ogni visita ospedaliera fino a tre giorni prima della sua nascita, dopo che i medici avevano diagnosticato i suoi problemi cardiaci. Dean Gregory ha raccontato che lui e Claire, la madre di Indi, hanno ricevuto pressioni per abortire Indi fino alla nascita perché la bambina era disabile. Hollie Dance è stata invitata a donare gli organi di Archie Battersbee fin dal secondo giorno in cui è stato portato in ospedale. E un protocollo per il trasferimento di Alfie Evans era stato redatto ancor prima che il suo caso finisse in tribunale, ma è stato rifiutato dalle autorità britanniche. La prossima settimana in tribunale la famiglia di Sudiksha, la 19enne affetta da una grave malattia genetica e messa a morte malgrado lei fosse contraria, si batterà per dimostrare che il disaccordo con il giudizio dei medici non dipendeva da una incapacità di comprendere la sua situazione, ma dalla volontà di vivere con una disabilità. Tutte queste famiglie hanno chiesto un'unica cosa, la possibilità di far vivere i loro cari fino alla loro fine naturale. Opportunità che è stata loro negata.

In questi anni la Nuova Bussola Quotidiana ha seguito da vicino questi casi di fine vita, incontrando anche le famiglie. È difficile descrivere l'angoscia causata dalle lunghe battaglie legali, l'insopprimibile speranza di salvare il proprio figlio che spinge le famiglie ad andare avanti, e la devastazione quando la morte ha l'ultima parola. È difficile non pensare che forse il vero miracolo non è tanto la guarigione quanto poter uscire dal Regno Unito per avere la possibilità di vivere fino alla fine naturale della vita.

 

 



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