Nemmeno l'aumento dell'età sanerà il problema
Dal 2019 si andrà in pensione a 67. Ed è subito polemica, alla vigilia delle elezioni. Ma l'aumento è pressoché inevitabile. E non sarà sufficiente a sanare il problema di una previdenza che offre pensioni da fame a un costo esorbitante (16% del Pil).
Dal 2019 si andrà in pensione a 67 e non più a 66 anni e 7 mesi con almeno 20 anni di contributi, come adesso. Apriti cielo! Con le elezioni alle porte, l’aumento dell’età pensionabile, anche soltanto di cinque mesi, non poteva non diventare motivo di scontro e di polemica.
Purtroppo, ogni proclama rivolto alla diminuzione dell’età pensionabile altro non è che una presa in giro, perché di denari per far fronte a questa promessa non ce ne sono. Anzi, l’unica certezza è che con il passare degli anni l’età pensionabile aumenterà. Infatti, nonostante la Riforma Fornero, tra i 35 paesi dell’OCSE l’Italia ha la più alta percentuale di spesa previdenziale rispetto al Pil, segnatamente il 16%. La Germania, locomotiva economica d’Europa, ha poco più del 9%. Eppure, l’Italia è un paese in cui non pochi pensionati faticano ad arrivare a fine mese e, fra questi, è in aumento il numero di coloro che sono costretti a risparmiare sulle spese mediche, di vitale importanza soprattutto quando si invecchia.
Il miracolo tutto italiano di pensioni basse a fronte di una spesa previdenziale abnorme è in realtà una contraddizione solo apparente. In un sistema previdenziale a ripartizione le pensioni erogate vengono finanziate dai contributi versati da chi in quel momento lavora. Pertanto, più sono i lavoratori attivi e più il sistema resta in equilibrio. Ebbene, per decenni l’Italia ha conosciuto fenomeni come i baby pensionati, ossia persone che con 15 anni 6 mesi e un giorno potevano andare in pensione con la cosiddetta minima, tanto che c’è chi si è messo a riposo prima di aver compiuto 30 anni. In un sistema previdenziale a ripartizione, quindi, la pensione anticipata incide doppiamente sul bilancio pubblico, poiché chi nel pieno delle proprie forze lascia il lavoro diventa allo stesso tempo una persona che viene a dipendere dalla comunità e una persona che non le fornisce più il suo contributo. Di conseguenza, l’Italia si è trovata ad avere un alto numero di pensionati e un basso numero di lavoratori che con i loro contributi finanziavano chi andava in pensione. A questo si aggiunga che l’Italia ha sempre avuto un’alta percentuale di lavoratori in nero (quasi il 16% nel 2016, con punte di oltre il 20% in alcune regioni del sud), che notoriamente non versano contributi, e tassi di occupazione molto bassi, se si pensa che nella fascia di età compresa tra i 55 e i 64 anni, prima della crisi gli occupati erano soltanto del 30,5%, 2,1% in meno di quello della Grecia.
L’altra “gamba” del sistema pensionistico a ripartizione è quella demografica. Perché tale sistema sia sostenibile, occorre che si facciano figli. Ebbene, prima della “famigerata” Riforma Fornero, l’Italia destinava alla spesa pensionistica ben il 61,8% della propria spesa complessiva per il welfare, a fronte del 45,7% della media dei paesi dell’Unione europea, i quali spendevano l’8% per i disabili e il 10,1% per figli e famiglia, mentre in Italia si spendeva rispettivamente il 6,4% e il 5,3%. E se per le case popolari l’Europa spendeva in media il 3,5%, l’Italia si fermava allo 0,2%. Sì, insomma, rispetto agli altri paesi europei, l’Italia è quello che meno di tutti ha adottato politiche di welfare attive, ossia quelle che incentivano il lavoro, la maternità e la possibilità per chi è giovane di accedere all’abitazione e lasciare quella familiare, così da realizzare un progetto di vita proprio, inserendosi nel mondo del lavoro e, se riesce, facendosi una famiglia.
Seppure in misura minore rispetto all’Italia, l’insostenibilità nel lungo periodo del sistema pensionistico a ripartizione è un problema che riguarda anche gli altri paesi occidentali, nei quali l’età pensionabile tende irreversibilmente ad aumentare. Del resto, tale sistema nacque per opera del cancelliere tedesco Bismarck nella seconda metà dell’Ottocento, quando si facevano molti figli, mentre i lavoratori, una volta in pensione, campavano poco (3 anni era già un periodo lungo e il 2% circa arrivava a campare 5 anni) e in tal modo il sistema finanziariamente reggeva.
Indubbiamente, in Italia esistono problemi di corruzione e di alti costi della politica, ma questo non deve diventare un alibi. Più che i costi della politica, sul bilancio pubblico italiano incidono i costi del consenso politico, e quelli del sistema previdenziale sono i più alti. Da 25 anni ci hanno fatto credere che viviamo nel migliore dei mondi possibili, guastato solo da politici ladri e corrotti. Ladri e corrotti ci sono, ma la triste verità è che viviamo nel più spendaccione dei mondi possibili ed è ora di prenderne atto senza più alcun alibi. Pertanto, se si vuole mantenere un sistema previdenziale a ripartizione che sia sostenibile nel tempo o si aumentano, e di tanto, la produttività della nostra economia e la prolificità delle nostre famiglie, oppure l’età pensionabile verrà innalzata a un ritmo ben maggiore rispetto a quello dell’aumento della vita media. E i tempi di Bismarck, inevitabilmente, torneranno.