Nello Stato Islamico tornano i mercati delle schiave
Dopo anni di sospetti, anche un reportage del New York Times, conferma l'esistenza di un vasto mercato di donne e bambine "infedeli" rese schiave nei territori controllati dall'Isis. Contrariamente a quel che dice il reportage della Callimachi, non si tratta di una stravaganza del Califfo, ma di una pratica legittimata dal Corano che l'Isis vanta di aver ripristinato.
Il 13 agosto il New York Times ha pubblicato uno straordinario reportage di Rukmini Callimachi sulla «teologia dello stupro» del califfato islamico dell'Isis. La reporter ha trascorso diversi mesi, in circostanze avventurose, in Iraq e in Siria e riferisce della complessa burocrazia con cui lo Stato islamico gestisce, come avveniva secoli fa, il mercato delle schiave. La Callimachi descrive mercati dove cinquecento o anche mille donne sono esaminate dai potenziali compratori e poi vendute all'asta. L'organizzazione è molto articolata, con decine di mercati delle schiave, e sistemi gestiti dallo Stato Islamico di «deposito» e di trasporto, come se si trattasse di una comune merce.
L'unica ragione del loro acquisto è di natura sessuale. Gli acquirenti sanno che, in base alla teologia insegnata dal Califfo, potranno avere liberamente rapporti sessuali con le schiave senza commettere peccato, anche se hanno già il numero massimo di mogli prescritte dall'islam, quattro. Un documento ufficiale del Califfato precisa pure che è permesso avere rapporti anche con bambine schiave che non hanno raggiunto la pubertà, purché siano «fisicamente capaci dell'atto sessuale». Le uniche limitazioni riguardano le donne incinte e quelle che hanno raggiunto la menopausa.
Il Califfo consiglia a chi ha acquistato una schiava di pregare prima e dopo l'atto sessuale con lei, e non si tratta di una clausola retorica. La Callimachi ha intervistato schiave che sono state liberate. La legge del Califfo permette che le schiave siano affrancate dai padroni, e questo avviene spesso quando costoro partono per una missione di terrorismo suicida, sapendo che non torneranno. Le ex-schiave, spesso semplici bambine, hanno confermato che i loro padroni pregavano prima di violentarle e dopo la violenza. Alcune avevano anche discusso con loro, non riuscendo a convincerli che quello che stavano facendo era sbagliato.
Il New York Times è la quintessenza del politicamente corretto e l'intrepida giornalista è stata un po' meno coraggiosa quando, di ritorno negli Stati Uniti, ha intervistato il solito accademico che le ha assicurato che la schiavitù è una follia del Califfo e non c'entra niente con l'islam, anche se riferisce di avere ascoltato anche opinioni diverse. Certamente la schiavitù è esistita per secoli nell'islam, e l'Isis, guidato da un Califfo che ha un dottorato in teologia islamica, non è a corto di argomenti per sostenere la sua posizione.
La rivista ufficiale dell'Isis, Dabiq, sostiene che in una società «islamizzata» dev’essere ristabilita anche la pratica della schiavitù, e irride i musulmani che ritengono la schiavitù un semplice portato sociale dei primi secoli islamici. «Prima che Satana riveli i suoi dubbi ai deboli di mente o di cuore – ha scritto Dabiq – ciascuno ricordi che ridurre in schiavitù le famiglie degli infedeli e prendere le loro donne come concubine è un aspetto della legge islamica stabilito in modo fermo. Se qualcuno lo negasse e lo mettesse in ridicolo starebbe negando e mettendo in ridicolo i versetti del Corano e gli insegnamenti del Profeta (pace e benedizione su di lui) e pertanto sarebbe apostata dall’islam».
L’Isis si vanta di essere il primo Stato islamico a «praticare la riduzione in schiavitù su vasta scala» dopo quella che definisce la grande apostasia dell’islam moderno. Cita come precedenti zone «islamizzate» delle Filippine e della Nigeria dove donne cristiane sono state ridotte in schiavitù, il che considera peraltro giustificabile solo in circostanze speciali, posto che le donne dei Popoli del Libro, cristiani ed ebrei, non devono essere rese schiave se possono pagare la tassa «compensativa» detta jiziah. In un recente memorandum scovato dalla Callimachi, il Califfo ha precisato che donne cristiane - ed ebree, ma nelle zone controllate dall'Isis non ce ne sono - «catturate in battaglia» possono essere costrette ad avere rapporti sessuali con chi le ha prese prigioniere, ma in seguito non devono essere ridotte in schiavitù, a meno che non siamo in grado di pagare la tassa, il che accade di rado perché ci sono organizzazioni internazionali che provvedono.
A essere rese schiave in gran numero nel Califfato sono le donne dell'antica minoranza degli yazidi che possono evitare la schiavitù solo con la conversione all’islam. Se invece non si convertono, spiega un documento pubblicato da Dabiq, la loro schiavitù ha un’utile funzione sociale perché i musulmani, acquistandole come schiave e prendendole come concubine, «sfuggiranno alla tentazione del peccato» di adulterio e fornicazione, che commetterebbero se si unissero con donne libere diverse dalle loro mogli, mentre l’unione con la schiava è lecita. Mentre dunque le donne cristiane ed ebree possono sottrarsi alla schiavitù pagando una tassa, e le donne «pagane» – nel territorio del Califfato, soprattutto yazide – sono destinate alla schiavitù a meno che non si convertano, va molto peggio alle donne «apostate», cioè musulmane sciite ovvero druse o alauite; queste «non possono essere rese schiave ma devono subito essere poste di fronte all’alternativa fra convertirsi e morire di spada».
Non che nel mondo di al-Qa'ida – lo ha ricordato maliziosamente lo stesso Dabiq – le uccisioni indiscriminate di non musulmani e anche la schiavitù non siano state praticate: ma si è cercato di evitare di farne una propaganda considerata del tutto controproducente. L’Isis invece si vanta del suo stesso estremismo, all’interno di una strategia propagandistica che ritiene premi chi grida di più e propone slogan più radicali. Questi slogan, per l'Isis, hanno però sempre una giustificazione teologica. Non si tratta semplicemente degli stupori e delle violenze che purtroppo accompagnano ogni guerra, ma di una teologia che cerca a ogni passo la sua giustificazione nel Corano e nella tradizione islamica.