Nell'inferno del Libano, con Elisa Gestri
Come si vive quotidianamente la guerra, dando una testimonianza diretta di chi abita in Libano. Questo Venerdì della Bussola, il direttore Riccardo Cascioli ne parla con Elisa Gestri, reporter italiana in Libano.
Reggerà la tregua in Libano? Ufficialmente iniziata il 27 novembre scorso, già si contano morti a centinaia. Ma come si vive questa situazione a Beirut? Molto spesso parliamo della guerra con analisi, notizie e servizi televisivi, ma vorremmo capire come si vive quotidianamente, dando una testimonianza diretta di chi abita in Libano. Questo conflitto è stato oggetto della diretta di ieri dei Venerdì della Bussola, intitolato, senza esagerare, Nell'inferno del Libano. Ad accompagnarci nei suoi gironi è la reporter italiana Elisa Gestri che da quattro anni vive a Beirut, che ha conversato con il direttore Riccardo Cascioli.
Dal 27 novembre c’è la tregua, ma come stanno veramente le cose. Elisa Gestri ci mostra una mappa aggiornata del Libano meridionale per capire meglio ciò che accade, aggiornata al 5 dicembre. «L’IDF (esercito israeliano, ndr) chiede ai libanesi di allontanarsi dai villaggi segnati in rosso sulla mappa. In bianco è tracciato il confine israelo-libanese, in blu la linea del fiume Litani. L’accordo prevede che l’IDF lasci il Sud del Libano e Hezbollah si ritiri sul Litani. Ad oggi l’esercito israeliano occupa ancora tutto il sud del Libano. E chiede ai libanesi di non avvicinarsi alla fascia territoriale occupata, di circa 40 km. In realtà la tregua non è stata rispettata». Nel frattempo si continua a combattere. «Vorrei dare alcuni dati: al 29 novembre, due giorni dopo la tregua, il ministero della Sanità ha calcolato 3800 morti e 16mila feriti fra i libanesi, ma si pensa siano stime in difetto. Al 4 dicembre, i morti sono saliti a 4047, tutti colpiti da fuoco israeliano».
Il Libano si trova in questa situazione a causa del 7 ottobre 2023 (il pogrom di Hamas) che ha cambiato molte cose in tutto il Medio Oriente. E c’è anche un Libano dopo il 23 settembre 2024, da quando sono iniziate le operazioni israeliane. Ma cosa era il Libano prima del 7 ottobre? «Dal 2019 il Libano vive in una grave crisi economica. C’è stato anche un tentativo di rivoluzione, come le primavere arabe. Nel 2020 il nuovo premier ha considerato il Libano come uno stato fallito che non è riuscito a ripagare il debito pubblico. La lira libanese ha perso il 90% del suo valore, solo dirlo ha dell’incredibile. L’80% della popolazione vive sotto la soglia di povertà. La classe media è praticamente scomparsa. Chi aveva soldi in banca e aveva lavorato tutta la vita, pensionati così come salariati, non ha più potuto accedere ai suoi soldi in banca. Le banche non erano più in grado di dare i soldi ai correntisti. Correntisti disperati rapinavano le banche, chiedendo i loro stessi soldi. In queste condizioni, dopo anni, arriva il 7 ottobre». Non si è trattato di una crisi solo economica: «La crisi finanziaria ha portato con sé anche una ‘vacanza’ istituzionale. Nelle ultime elezioni del maggio 2022 non si è formato un nuovo governo. Fin dalla scadenza naturale del presidente Aoun, il governo e il parlamento non sono riusciti a eleggere un nuovo presidente. Il Libano è un paese multi-confessionale, il presidente deve essere un cristiano maronita, il presidente della Camera (in un parlamento mono camerale) deve essere sciita e il premier è sunnita, per rappresentare le tre principali religioni delle 18 professate in Libano. Eleggere un presidente della repubblica è un compito molto più difficile che un normale paese democratico. E in più tutte le istituzioni sono profondamente corrotte. E la difficoltà a eleggere i vertici derivano anche da questo, dal problema di mettere assieme i vari clan. Sono interessi incrociati fra religione, affari privati e partiti politici che paralizzano il paese»
E dopo il 7 ottobre? «Il giorno dopo l’attacco di Hamas, Nasrallah con un comunicato stampa si è schierato con Hamas e comincia una serie di attacchi sul confine israeliano, lanciando razzi sulla Galilea. Questo è andato avanti per circa un anno. Questa guerra a bassa intensità è finita il 17 settembre quando gli israeliani hanno fatto esplodere i cercapersone e i walkie talkie dei quadri di Hezbollah». Da lì alla guerra il passo è stato molto breve. Ma come mai Israele ha colpito così in profondità, fino a Beirut e non solo nel Libano meridionale? «Netanyahu ha affermato in vari comunicati stampi che l’obiettivo è l’eliminazione di Hezbollah dal Libano. Hezbollah è una milizia e un partito politico che esprime ministri, deputati, ha uffici a Beirut, ha il suo quartier generale a Beirut, nella periferia sud che è un fortino di Hezbollah (dove anche vivono cristiani, sciiti che non sono membri di Hezbollah, siriani fuggiti dalla guerra…). Il capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah è stato ucciso il 27 settembre a Beirut. Quindi gli israeliani per questo motivo hanno bombardato più volte Beirut, così come Baalbek (a 100 km dal confine), Karmel, la valle della Bekaa».
Elisa Gestri, comunque, non crede che Israele si limiti a colpire Hezbollah: «Non c’erano postazioni di Hezbollah in molti luoghi bombardati, come si è dimostrato dopo. Come a Gaza dove sono stati bombardati siti che non contenevano obiettivi di Hamas, come la chiesa di San Porfirio. E’ la logica del più forte, come nella fiaba di Esopo in cui il lupo, a monte, accusa l’agnello, a valle, di inquinare l’acqua. Il punto è che il Libano ha sempre fatto gola a Israele e il governo israeliano non ne ha mai fatto mistero. Netanyahu disse esplicitamente che i libanesi avrebbero dovuto prendere le armi contro Hezbollah, altrimenti ci avrebbe pensato l’IDF a farlo a modo suo. E’ un invito a riaprire la guerra civile. Per fortuna nessuno ha risposto all’appello perché se i cristiani avessero preso le armi, oggi avremmo un macello ancora peggiore. Il momento storico è già gravissimo per il Libano e molti sciiti stessi non appoggiano Hezbollah. Ma almeno non è ripresa la lunghissima guerra civile».
Oggi, in compenso, c'è un Libano molto più dipendente dall'Iran: «Qassem, dopo l’uccisione di Nasrallah, ha preso la guida di Hezbollah. La leadership è stata decapitata e Qassem, molto anziano e molto prono all’Iran (mentre Nasrallah era molto più libanese e nazionalista), ha dato il suo sostegno a Bashar al Assad nella rinnovata guerra civile in Siria. Se non fosse stato ucciso Nasrallah, la tregua sarebbe stata molto più difficile da raggiungere, perché l’Iran, non potendosi permettere una guerra generale ha sacrificato il suo proxy in Libano e ha ordinato a Qassem di rinunciare a combattere (parere personale)».
Ma infine, tornando alla questione centrale, come vivono il conflitto i libanesi? Che impatto ha la guerra su di loro? «Quanto è l’impatto di una bomba su un quartiere? Qual è l’impatto di un milione di sfollati interni su Beirut? Ci sono tende anche nelle piazze nel cuore della città. Chi non ha i soldi, dorme per strada. La notizia buona è che, ad oggi, si è evitata la guerra civile. I cristiani non hanno preso le armi contro Hezbollah e non ci sono stati scontri con i siriani profughi dalla guerra civile. Ma il sovraffollamento è terribile, è difficile trovare un solo posto in cui poter dormire, tensioni enormi nella popolazione civile. Il grande cuore dei libanesi è dimostrato in queste circostanze: a Tripoli, città sunnita, accolgono gli sciiti e i siriani, a cui hanno aperto le scuole. Salvo casi di rigetto e di speculazione, prevale la solidarietà. I cristiani hanno aperto la porta a tutti, anche nella grave carenza delle ONG internazionali che, vista la mala parata, hanno lasciato il paese. Le chiese cristiane hanno fatto un gran lavoro e lo hanno fatto da sole. Auguriamoci che la tregua (che dura 60 giorni) sia preludio di una pace».