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L'INTERVISTA

«Nella Chiesa è tempo di una vera pastorale della vita»

«Per la Chiesa, la frontiera della vita è oggi ciò che in passato fu la dottrina sociale rispetto alla condizione degli operai: i bambini ai quali è impedito di nascere rappresentano la categoria più oppressa nel loro diritto fondamentale, quello della vita». Nasce un corso apposito di pastorale della vita. Intervista a don Maurizio Gagliardini.

Vita e bioetica 23_02_2022

Un punto debole degli sforzi dei laici pro life e pro family è sempre stato quello di operare spesso al di fuori dell'ambito pastorale. Questo è avvenuto sia per libera scelta che per necessità. In quest’ultimo caso ciò è capitato a motivo di una distrazione o di una indifferenza, se non a volte, di una ostilità di alcuni pastori per le tematiche attinenti alla bioetica e in particolare a quelle legate alle vita nascente e morente.

L’innesto dell’azione pro-life e pro-family nell’ambito pastorale è essenziale affinché queste materie eticamente sensibili vengano informate dalla fede e dunque trovino il loro più radicale fondamento nell'alveo sacramentale e, in senso più ampio, nella Chiesa stessa. Infatti operare unicamente sul piano orizzontale, proprio della ragione naturale e dunque della morale naturale, è sì cosa buona, ma non sufficiente. Alla base delle verità naturali sull'uomo troviamo sempre Dio e il Dio di Gesù Cristo. Questo comporta che non ci potrà essere vero successo negli sforzi per la tutela della vita e della famiglia se non quando questi stessi sforzi si innerveranno di un afflato trascendente, se non quando verranno declinati, o meglio, fondati sul piano teologico e teologico sacramentale diventando così pastorale. Nulla salus extra Ecclesiam, significa anche questo. In altri termini sarebbe ingenuo pensare di riuscire a salvare i bambini dall'aborto prescindendo dalla Chiesa e puntando tutto sul volontariato e, in merito al piano formativo, sulla filosofia morale, sulla antropologia, sulle scienze empiriche e su quelle giuridiche.

Questo tentativo di riportare il tema della vita nascente e morente in seno alla pastorale della Chiesa è alla base del corso “Vita nascente. Pastorale dell’accoglienza e della cura”, promosso dall’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Novara e dall’Associazione Difendere la Vita con Maria, con il patrocinio dell’Ufficio Nazionale per la pastorale della salute della Cei. Le tematiche proposte vengono declinate, spesso con un’accentuata prudenza tenuto conto della delicatezza delle tematiche e del fatto che in seno alla Chiesa ormai si è persa dimestichezza nel trattare questi argomenti con autenticità, secondo diversi ambiti: da quello biblico-teologico a quello pedagogico, da quello bioetico a quello sociale, da quello psicologico a quello giuridico.

Per parlare di questo corso, che è iniziato il 5 febbraio scorso e che terminerà il 4 giugno prossimo, abbiamo incontrato Don Maurizio Gagliardini, presidente dell’Associazione Difendere la Vita con Maria.

Don Maurizio, il laico impegnato a favore della tutela della vita ha bisogno dell'aiuto della Chiesa? Ha senso quindi parlare di pastorale della vita?
Cito due testi. Il primo è l’appello che san Giovanni Paolo II ha rivolto all’uomo di ogni tempo e di ogni latitudine contenuto nell’Evangelium vitae: “Urgono una generale mobilitazione delle coscienze e un comune sforzo etico, per mettere in atto una grande strategia a favore della vita. Tutti insieme dobbiamo costruire una nuova cultura della vita: nuova, perché in grado di affrontare e risolvere gli inediti problemi di oggi circa la vita dell'uomo; nuova, perché fatta propria con più salda e operosa convinzione da parte di tutti i cristiani; nuova, perché capace di suscitare un serio e coraggioso confronto culturale con tutti. […] Si deve cominciare dal rinnovare la cultura della vita all'interno delle stesse comunità cristiane”. Il secondo documento è l’istruzione della Congregazione per la dottrina della fede Donum vitae: Con questo documento, la Congregazione per la Dottrina della Fede, adempiendo al suo compito di promuovere e tutelare l’insegnamento della Chiesa in così grave materia, rivolge un nuovo accorato invito a tutti coloro che, in ragione del loro ruolo e del loro impegno, possono esercitare un influsso positivo perché, nella famiglia e nella società, sia accordato il dovuto rispetto alla vita e all’amore: ai responsabili della formazione delle coscienze e dell’opinione pubblica, ai cultori della scienza e ai professionisti della medicina, ai giuristi e agli uomini politici”. Questi due documenti indicano che la Chiesa non può agire se non attraverso la collaborazione dell’intero consorzio umano, nelle sue più ampie articolazioni. Per la Chiesa, la frontiera della vita è oggi ciò che in passato fu la dottrina sociale rispetto alla condizione degli operai: i bambini ai quali, per diversi motivi, è impedito di nascere, allo stato attuale sono i più fragili, coloro che non hanno voce, rappresentano la categoria più oppressa nel loro diritto fondamentale, quello della vita.

Qual è la novità di questo corso?
Nell’ormai famosa intervista che papa Francesco rilasciò alla Civiltà Cattolica (settembre 2013), così si espresse: «Io vedo con chiarezza che la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità. Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto. Curare le ferite, curare le ferite… E bisogna cominciare dal basso». E il basso, nella pastorale della vita, sono i fragili, i bambini ai quali è impedito di venire al mondo, nonché gli anziani privi di autonomia. Oggi gli estremi della vita, la nascita e la morte, sono sotto l’attacco di una cultura individualistica verso cui il cristiano non può rimanere neutrale. Occorre ribadire che la vita nasce da un atto d’amore il cui principio è Dio, che opera prima ancora della volontà dei genitori, e che a Dio si riconduce anche la morte. Servono dunque persone preparate in ogni ambito, capaci di rispondere sia alle domande di senso che alle richieste pratiche di quelle famiglie toccate da una perdita prenatale. Il nostro corso intende formare simili figure.

Voi proponete una liturgia per la vita nascente. Di cosa si tratta?
Proprio in questi giorni è emersa una notizia incoraggiante per la nostra missione: il 20 gennaio il Vicariato di Roma ha inviato al suo clero una nota pastorale sulla celebrazione delle esequie cristiane, che recepisce le disposizioni emanate dalla Conferenza episcopale laziale. In particolare, al punto 4, tale disposizione stabilisce che per il rito delle esequie per i bambini non nati «ci si comporti come nel caso dei bambini non ancora battezzati». Questo pronunciamento è di notevole importanza, perché porta all’attenzione il problema dei bambini non nati, su cui la pastorale ordinaria non ha ancora precise linee guida. Si tratta della preghiera personale e comunitaria, fonte e culmine della vita cristiana: la Chiesa prega per i bambini morti senza battesimo, come già stabilito dal documento della Commissione teologica internazionale dal titolo La speranza della salvezza per i bambini che muoiono senza battesimo.

Quale la differenza più saliente tra azione dei laici pro-life e azione pastorale a favore della vita?
Il mondo pro life si concentra sul delitto, la pastorale invece condanna il peccato ma ha nel cuore la salvezza delle persone, alle quali volge l’invito di Gesù nella piena fiducia che nel cuore dell’uomo ci sia sempre la possibilità di aprirsi alla verità, alla consapevolezza dei propri limiti, alla capacità di riconoscere il proprio errore e di richiedere il perdono, recuperando l’autostima e la fiducia nel futuro.