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INCHIESTA SU MANZONI / 6

Nei Promessi Sposi compaiono più osterie che chiese

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All'uomo del Seicento l’osteria appare come specchio dell’esistenza, in cui si riflettono le varie qualità degli uomini e del mondo, come spiegava il canonico Antonio Mirandola. Eccone spiegata la frequenza nel capolavoro manzoniano, che a prima vista può stupire il lettore.

Cultura 27_02_2023

Chiunque si avventuri per la prima volta nella lettura del romanzo non può che rimanere colpito dal fatto che proprio quel testo che rappresenta pienamente la genialità del cristianesimo riserva poco spazio alle chiese mentre ne dedica tanto alle osterie.

È impressa nella mente di ciascuno quella del paese dei due giovani fidanzati in cui Renzo dà appuntamento a Tonio e a Gervaso per organizzare il matrimonio di sorpresa, quella di Milano in cui il giovane si ferma a mangiare e a dormire la sera del tumulto di san Martino, quella di Gorgonzola in cui Renzo si rifocilla per poco tempo, il 12 novembre, prima di fuggire verso l’Adda. È sempre Renzo a trovarsi nell’osteria, verso sera, dopo il tramonto e al termine di una giornata particolarmente movimentata e drammatica. Lucia non vi compare mai. Gli abitatori di quelle taverne sono scaltri, furbi, ingannatori, sanno parlare o tacere quando è opportuno, osservano e pongono domande per raggiungere l’obiettivo prefissato.

Perché le pagine dedicate al mondo dell’osteria sono così numerose? Cosa voleva comunicarci Manzoni?  Se andassimo a documentarci nelle biblioteche del Seicento, se leggessimo i saggi dell’epoca, scopriremmo che gli intellettuali di quel secolo avevano un repertorio di immagini e di motivi ricorrenti per descrivere il mondo e la realtà. Tra questi spiccavano senz’altro la pazzia, il teatro, l’osteria.

La pazzia, che secondo la fisiologia del tempo nasce da uno squilibrio di umori, con eccesso di bile nera, causa di malinconia, diventa strumento indispensabile di conoscenza: perché in un mondo capovolto (totalmente differente da quello che si pensava fino al secolo prima, in seguito alle scoperte geografiche e astronomiche e alle conseguenti riflessioni antropologiche) la verità risiede nel contrario di se stessa. Grandi letterati mettono il tema della follia al centro delle loro opere: su tutti Shakespeare nell’Amleto e Cervantes nel El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha. Nel Cannocchiale aristotelico lo scrittore Emanuele Tesauro sostiene che gli artisti condividano con i pazzi l’uso delle metafore, in quanto i più predisposti «al formar simboli arguti» siano coloro che sono «ingegnosi, furiosi, esercitati, […] matti».

Il mondo è come un teatro. L’uomo ritiene di interpretare una parte, come un attore in un’alternanza confusa tra essere e apparire; indossa una maschera ed è compito degli storici e dei moralisti toglierla e vedere cosa ci stia dietro. L’uomo può atteggiarsi a superiorità rispetto alla propria situazione reale (in questo caso si usa il termine «simulazione» per indicare la millanteria) oppure mostrarsi inferiore a come si è, avvalendosi della modestia (atteggiamento descritto all’epoca con la parola «dissimulazione», considerata dall’intellettuale Torquato accetto «onesta»). Il tempo è transeunte, mutevole, passeggero: nella vita, proprio come a teatro, le parti si alternano con repentini capovolgimenti. Uno dei maggiori drammaturghi di tutti i tempi, Shakespeare, vissuto proprio in quegli anni, scrive nella commedia Come vi piace che

il mondo è tutto un palcoscenico, e uomini e donne, tutti sono attori; hanno proprie uscite e proprie entrate: nella vita un uomo interpreta più parti.

Il teatro è la forma artistica più diffusa nel Seicento, tanto che influenza l’urbanistica (talvolta le città vengono pensate come veri e propri teatri) e l’architettura (il colonnato del Bernini viene considerato un «theatrum mundi»).

All’uomo del Seicento il mondo appare anche come un’osteria. Il poeta spagnolo Fernandez de Ribera (1579-1631) descrive l’osteria come specchio dell’esistenza, un universo popolato da persone che arrivano e altre che partono, in apparenza autentiche e non pericolose, ma di fatto spesso ingannatrici e teatranti, spaccone o ruffiane. Quella che all’apparenza potrebbe sembrare una locanda pulita e affidabile si rivela ad un osservatore più acuto una taverna sporca e insicura.

Nell’Osteria del mal tempo (1639) il canonico Antonio Mirandola (1573-1648) si propone di

mostrare le qualità, e gli accidenti del mondo significato per l’osteria, signoreggiata da Luciferone, il quale può esser figura del diavolo […]. Tiranno del mondo è il Diavolo, benché Cristo l’abbia scacciato. […] E l’Osteria è di Luciferone Tiranno. Il mondo, per lo più, è governato da peccatori che prevagliono. […] L’Hosteria è affittata ai Vitij. Il Mondo è abbondante di liti, controversie, e guerre. […] L’Hosteria mantiene risse e discordie. Il Mondo facilmente contiene buoni, e cattivi, qual rete, che raccoglie ogni sorte di pesce. Per lo che a ragione questa Hosteria può significare il Mondo. Pensiero anco di Seneca […]. E vi allude S. Pietro. […] E S. Cipriano.

Le parole del Mirandola dimostrano la coincidenza tra mondo ed osteria nella simbologia e nell’immaginario dell’uomo del Seicento permettendo di comprendere meglio la fitta presenza dell’osteria all’interno dei Promessi sposi.