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INTERVISTA

Negri: «Don Giussani? Un'umanità sfolgorante»

«La radice della sua umanità nuova era nell'incontro straotdinario della sua esistenza con Gesù Cristo». «Davanti al violento attacco laicista, Giussani contrapponeva la serenità di chi aveva trovato una cultura adeguata nella sua vita. Il suo era un attacco al mondo, l'opposto di quel silenzio di giudizio oggi dominante». A 10 anni dalla morte il ricordo di chi gli è stato al fianco per 40 anni.
- È IL MAESTRO DEL NUOVO ANNUNCIO DI CRISTO, di R. Ronza

Ecclesia 22_02_2015
Don Giussani durante una vacanza di GS a Varigotti

«Ragazzi, devo dirvi una cosa: se nascessi cento volte farei sempre il lavoro che sto facendo». Era il 1957, così esordì don Luigi Giussani - oggi ricorre il X anniversario della sua morte -  nella prima lezione dell’anno entrando in classe nella I liceo classico del Berchet a Milano. In quella classe c’era un ragazzo di nome Luigi Negri, oggi arcivescovo di Ferrara-Comacchio, che ricorda quell’episodio come esemplare dell’«umanità sfolgorante» di don Giussani. «Nessuno dei miei insegnanti – ricorda monsignor Negri, che di don Giussani è stato tra i più stretti collaboratori nella guida del movimento di Comunione e Liberazione - mi aveva neanche lontanamente accennato a questa straordinaria sicurezza. Tutti, poco o tanto, desideravano altro perché il presente non corrispondeva alle loro esigenze». 

Una certezza che l’aveva colpita. Ma cosa l’ha spinta a seguire don Giussani?
Mi ha colpito la sua umanità. Non è che allora la vita nella società, e anche i rapporti che c’erano tra i ragazzi fossero tutti meschini, violenti, istintivi come purtroppo capita spesso tra i ragazzi di oggi. C’era allora una gamma variegata di testimonianze di quella cosa che univa gli uomini: il senso della propria umanità, il senso della propria dignità, della propria responsabilità, che poteva articolarsi in forme e modi diversi, con opzioni culturali e dialogiche diverse, ma c’era una natura che ci univa. In questa natura uguale, c’erano fattori sfolgoranti. Giussani era un’umanità sfolgorante, cioè un’umanità piena, in cui c’entrava il modo in cui insegnava religione, il modo con cui rideva e scherzava con i suoi allievi, il modo con cui pregava, il modo con cui viveva qualsiasi momento della sua esistenza. Tanti anni dopo, ma tanti anni dopo, forse già vescovo, ho capito il senso della grande frase di San Paolo: «Sia che mangiate sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fatela per Cristo». Io avevo poco più di 16 anni e questo l’ho visto in una esperienza umana. Ma la radice di questa umanità non era in lui, la radice di questa umanità nuova era stata l’incontro straordinario della sua esistenza con quel Gesù Cristo che i suoi genitori gli avevano comunicato, e la sua parrocchia aveva reso cammino inesorabile, tranquillo, sicuro, della sua infanzia e della sua adolescenza fino all’ingresso in seminario.

Nell’episodio citato in apertura, emerge la diversità assoluta di don Giussani rispetto all’ambiente umano circostante. Eppure stiamo parlando di un’Italia ancora cattolica.
Come Giussani ha detto tante volte, nei licei classici italiani cominciava allora quella inesorabile scristianizzazione della vita del nostro popolo che aveva come conseguenza la sostituzione di una cultura ancora formata dalla tradizione cattolica, con una cultura laica, atea, laicista. E questo passò attraverso una deformazione sistematica dei contenuti dell’insegnamento, quelli più determinanti per la mentalità: letteratura, storia, filosofia, arte. Lui ci aiutò a contrapporre a questo attacco violento l’imperturbabile serenità di chi aveva trovato una cultura adeguata nella sua vita. Vorrei che tutti quelli che hanno parlato di Giussani, dentro e fuori del movimento di Comunione e Liberazione, avessero anche soltanto una iniziale percezione di questa novità di attacco al mondo, adesso che si predica da tutte le parti che nel mondo non ci si deve essere per attaccare qualcosa, ma essere lì silenti e sbigottiti a vedere che il mondo si rovina.

Quella che lei ha descritto di Giussani è una grande forza attrattiva. Oggi “attrazione” è quasi una parola d’ordine, si dice giustamente che il cristianesimo si diffonde per attrazione. Ma su cosa significhi attrazione ci sono spesso ambiguità. A volte sembra essere identificata con una bellezza di vita personale, qualunque cosa questo significhi, che basterebbe da sola ad attirare l’attenzione degli altri. 
L’attrazione di cui parliamo è un’attrazione umana. Nell’umanità c’è dentro la capacità di ragionare, nell’umanità c’è dentro tutta la gamma delle esperienze umane. Non si può decidere dove passa l’attrattiva e dove non passa. Soprattutto non si può decidere perché è da imbecilli pensare di essere noi a definire l’ambito dove l’attrattiva si fa presente. L’attrattiva di Giussani era tutta la sua vita, perciò quando giudicava facendo scuola era attraente come quando ci portava in montagna. Dire che essere attraenti oggi vuol dire andare in montagna e non giudicare il mondo in cui noi viviamo, è quella «mediocrità dolce» di cui parla Giussani nel suo ultimo straordinario libro su cui sto facendo il ringraziamento della messa tutte le mattine. E lo consiglierei a tutti quelli che parlano e straparlano di Giussani. “In cammino (1992-1998)" dice che la «mediocrità dolce» sta distruggendo la società, si augura che non distrugga anche la Chiesa.

Quindi attrazione è anche invito agli altri a seguire, implica il "Vieni e vedi".
L'attrazione è invito. È l’invito agli altri, perché l’attrazione esprime una testimonianza e la testimonianza non richiama sé: la testimonianza richiama ciò per cui io sono così. Attraverso la testimonianza di Giussani abbiamo incontrato Gesù Cristo, perché Gesù Cristo era la radice della sua diversità, ma della diversità con cui viveva tutto: questa diversità passava attraverso tutto.

C’è un episodio che don Giussani ha raccontato spesso e che risale all’inizio del suo insegnamento al Berchet, ovvero quando chiese chi fossero quegli studenti che si ritrovavano sempre insieme al secondo piano della scuola. Erano “i comunisti”, ma la loro unità era ciò che mancava ai cristiani in quell’ambiente. Nel Cristianesimo l’unità visibile si chiama comunione, e non per niente questa è la parola che definisce lo stesso movimento di CL. Anche qui Giussani introduce una novità, un metodo nuovo…
…Che tra l’altro è il metodo della Chiesa: «Dove due o tre saranno presenti in nome mio io sarò con loro fino alla fine del mondo». Queste sono Ipsissima verba domini (parole assolutamente pronunciate da Gesù). “Dove due o tre saranno presenti in nome mio”, significa una unità sociale, visibile, evidente, consapevole di tutti i propri limiti. Io ero fra i quattro, ricordati spesso da Giussani, che si sono alzati in quell’assemblea di centinaia di studenti e ricordo di avere detto con serena tranquillità: «Noi studenti cattolici del Berchet...». È una presenza obiettiva che, pur carica dei propri limiti, ha la consapevolezza di portare ciò che il mondo non conosce e che magari senza esserne consapevole attende. Allora al Berchet non è che non fossero singolarmente cristiani, ma il cristianesimo come diceva lui, divenne un fatto reale nella scuola con lui. Divenne un fatto perché era una presenza unitaria, socialmente evidente; come diceva Plinio al suo amico imperatore: «Un popolo di terzo genere». E come disse il beato Paolo VI nell’udienza del 28 giugno 1972: «una entità etnica sui generis». Ogni tanto quando sento parlare del cristianesimo silenzioso, del cristianesimo che non si impone, che non travolge, soprattutto che non dice niente di esplicito per non violare la coscienza altrui – ma fosse così Gesù Cristo non avrebbe detto “sono il Figlio di Dio”, perché è la cosa più devastante della storia della cultura universale -,  mi viene in mente che adesso uno che entrasse in un ambiente, qualcuno gli si avvicinerebbe e direbbe sottovoce: "Qui qualcuno è cristiano ma preferiamo non dirlo".

Qualche tempo fa, in una intervista, lei parlava del suo incontro quotidiano con don Giussani che dura tuttora. Cosa ha significato don Giussani per la sua vita?
Quando reincontro quotidianamente nella comunione dei santi il mio grande amico monsignor Giussani, mi sento come qualunque cattolico di Milano che entra nella grande, straordinaria costruzione che la fede del popolo di Dio ha eretto alla Madonna. Ma tutta questa enorme grandezza poggia su una piccola pietra posta all’inizio, all’ingresso: «Mariae nascenti». Tutta la grandezza e lo sviluppo è l’espressione commossa, grata, di quella cosa piccola come può essere una donna nella vita nella storia e un uomo nella vita della storia. Ecco, Giussani per me è qualcosa che mi ha travolto nella sua grandezza e nella sua straordinaria umanità, ma alla radice del suo cuore c’era l’amore a Cristo, alla Chiesa, alla Madonna. E questa è la prima grande cosa che evocava in ciascuno di noi, che metteva in moto in ciascuno di noi.

 - È IL MAESTRO DEL NUOVO ANNUNCIO DI CRISTO, di R. Ronza