Natale vittima della cancel culture, ma Cristo torna ancora
Dimenticato, ignorato, preso di mira dalla cancel culture, “Cristo continua a tornare, non solo il 25 dicembre, ma ogni istante”. Per settimane siamo stati martellati dal mantra che avremmo dovuto osservare scrupolosamente tutte le regole di prudenza contro il Covid “per salvare il Natale”. Ma non è il Natale che ci salva? Proprio perché memoria della venuta di Gesù, salvatore dell’umanità? Questo un tempo era chiaro, oggi invece è diventata una festa di cui abbiamo smarrito il senso più vero. E l’abbiamo perso perché abbiamo perso Dio. Ma “Cristo continua a tornare”.
Abbiamo il latte senza lattosio, il caffè senza caffeina, la birra analcolica, la bistecca che non è più di carne. Ma siamo giunti anche al Natale senza il Natale. La festa più sentita da tutti è ormai sganciata dalle sue radici. Abbonda di luci (fin troppe! dov’è il risparmio energetico?), colori, shopping, regali, pranzi e cenoni, ma non c’è il Festeggiato.
L’ha detto bene il vescovo di Reggio Emilia-Guastalla monsignor Massimo Camisasca, in una recente meditazione sull’Avvento: “Il mondo è così confuso che addirittura arriva a parlare del Natale per negare Cristo, parlare intorno al Natale per negare Cristo, facendo della festa del Natale la festa della dimenticanza di Cristo”. Al più è vissuta come “la festa delle religioni, la festa della bontà”. Dalle istituzioni europee alle reti televisive c’è stata una gara a ignorare, a censurare il significato più autentico e genuino del Natale. In realtà non è uno scenario nuovo quello descritto dal vescovo. Già nel 1947 nel suo Diario lo scrittore (e terziario francescano) Giovanni Papini osservava: “Molta gente, molti auguri. Mi accorgo, però, che nessuno pensa veramente alla Natività di Cristo e al suo significato”.
E Italo Calvino, non senza fine ironia, in Marcovaldo (raccolta di novelle del 1963) scriveva: “Non c’è epoca dell’anno più gentile e buona, per il mondo dell’industria e del commercio, che il Natale e le settimane precedenti”. Più dura la scrittrice francese Marguerite Yourcenar, che pur non considerandosi credente, criticava il fatto che “la grande festa cristiana si riduce a due riti: comperare, in modo più o meno obbligativo, oggetti utili o meno, e ingozzarsi”.
Non sempre è stato così. Nei secoli, non solo il popolo ma i grandi della cultura italiana e mondiale hanno considerato il Natale per ciò che è: la festa più bella, avvolta in una calda atmosfera familiare e gioiosa, con al centro il Bambinello, il presepe, la Messa di mezzanotte, i canti natalizi della tradizione. È una lista interminabile, che parte da Efrem il Siro nel IV secolo, con il Dialogo tra i Magi e Maria (“Egli è il figlio di Dio e il Signore./ Portate l’annuncio nelle vostre contrade”) e arriva al poeta crepuscolare Marino Moretti (“Natale bussa a tutti gli usci e dona/ad ogni bimbo un piccolo presepe”), passando per Jacopone da Todi, Goethe, Heine, Dickens, Manzoni, Verlaine, Cechov, Peguy, Oscar Wilde, Eliot, fino - in tempi più vicini a noi - a Pascoli, Svevo, Pirandello, D’Annunzio, Montale, Garcia Lorca, Ada Negri, Ezra Pound, Pasternak, Silone, Guareschi, Pasolini, Luzi, Testori, Susanna Tamaro e persino Gianni Brera, celebre firma del giornalismo sportivo ma anche prolifico scrittore. Nella lunga lista dei “cantori” del Natale non mancano nomi imprevisti, come i francesi Théophile Gautier ed Edmond Rostand; famosi, il primo per Capitan Fracassa, il secondo per Cyrano di Bergerac. Ma desta un certo stupore anche la presenza, tra gli altri, del drammaturgo tedesco Bertolt Brecht (“Vieni, buon Signore Gesù, da noi,/volgi lo sguardo:/perché tu ci sei davvero necessario”) e della scrittrice fiorentina Dacia Mariani (“Tu sei lì, sdraiato sulla paglia e giochi con un lembo del velo che cala dalla testa di tua madre Maria”).
Non solo intellettuali, anche rappresentanti del jet set e del mondo dello spettacolo hanno espresso la loro devozione per la Natività. Dall’attrice norvegese Liv Ullmann, musa di Ingmar Bergman, al cantautore Francesco Guccini. Ma a sorpresa c’è pure l’acclamatissima band britannica dei Queen, con una canzone di Freddie Mercury pressoché sconosciuta, Jesus, con queste parole nel testo: It all began with the three wise men/Followed a star took them to Bethlehem/And made it heard throughout the land/Born was a leader of man (“Tutto ebbe inizio quando i tre Magi/Seguirono una stella che li portò in Betlemme/E fecero sapere a tutta la terra/Che era nato il re degli uomini”).
Giusto trent’anni fa, nel 1991, uscì (a cura di don Santino Spartà) una corposa antologia di lettere, confessioni, testimonianze sul Natale di oltre un centinaio tra scrittori, artisti, attori, personaggi televisivi, politici, giornalisti, industriali e creatori di moda. Emblematico il titolo: Caro Gesù Bambino. Molti di loro sono ancor oggi alla ribalta e c’è da chiedersi se si ritrovano nei giudizi espressi allora. Eccone alcuni. Per Milly Carlucci “è un fatto enorme, questa Incarnazione, che viene ignorata dal frastuono di questi giorni”. Gigliola Cinquetti: “Attraverso il presepio si ha la sensazione di toccare quella terra o di trovarsi in quell’ambiente dove è venuto al mondo Cristo”. Edwige Fenech: “Per noi cattolici deve essere Natale tutti i giorni”. Gianni Letta: “È e deve restare una festa religiosa, una festa dell’anima, una festa dello spirito”. Gianni Morandi: “È la nascita di Gesù Cristo. Ė ritrovarsi tutti insieme”.
Cos’e successo perché il Natale mutasse così radicalmente di significato? Forse semplicemente è diventato “troppo”. Proprio Troppo Natale si intitola uno splendido racconto di Dino Buzzati, pubblicato sul Corriere della Sera il 25 dicembre 1959, in cui lo scrittore bellunese immagina un dialogo tra il bue e l’asinello, che lasciano il paradiso degli animali e vanno a vedere “gli uomini che festeggiano il Natale”. Uno spettacolo impressionante, frenetico, tutti che corrono come pazzi. Il somarello non si scompone, il bove è sconcertato, convinto che il Natale fosse “la festa della serenità, della pace, del riposo dell’animo”.
Ma “una volta era così”, replica l’asinello. “Allora ce n’è troppo di Natale”, conclude l’altro. “Ti ricordi quella notte a Betlemme?... Era freddo anche lì, eppure c’era una pace, una soddisfazione. Come era diverso!”. Conferma monsignor Camisasca, in qualche modo riecheggiando la favola di Buzzati: “Quando Gesù è nato, non se n’è accorto quasi nessuno; un piccolo gruppo di pastori, Maria, Giuseppe… Eppure Lui ha cominciato così, comincia ancora così, perché sono io quel pastore, sono io Maria, sono io Giuseppe, e Lui dice: ‘vuoi seguirmi?’, con la delicatezza con cui si è sempre pronunciato”.
Dimenticato, ignorato, preso di mira dalla cancel culture, “Cristo continua a tornare, non solo il 25 dicembre, ma ogni istante”. Sta a noi riconoscerlo, e provare a rispondere alla drammatica domanda posta dal poeta Salvatore Quasimodo: “Ma c’è chi ascolta il pianto del bambino che morirà poi in croce fra due ladri?”.