Natale, nella liturgia la gioia incontenibile della Chiesa
Un excursus degli introiti delle Messe natalizie, cantati in gregoriano, ci fa vivere la stessa esperienza di attesa, di visione del Dio incarnato e della contemplazione della Theotokos vissuta dai pastori. Il canto gregoriano, come dice il Concilio Vaticano II, è nutrimento insostituibile per i fedeli.
I secoli della fede hanno donato alla Chiesa e al mondo intero un capolavoro liturgico nella notte e nel giorno di Natale. La consuetudine della Chiesa di Gerusalemme del IV secolo, attestata dalla pellegrina Egeria, di celebrare per tre volte la Santa Eucaristia a mezzanotte, all’aurora e nel giorno di Natale esprime l’incontenibile gaudio della Chiesa nel celebrare il mistero dell’Incarnazione e della nascita del suo Sposo e Redentore. La Chiesa di Roma l’ha fatta propria, mantenendo anche la consuetudine di celebrare le tre Messe in tre diverse basiliche differenti, rispettivamente Santa Maria Maggiore, conosciuta anche come Sancta Maria ad praesepem, la Betlemme di Roma, Sant’Anastasia Martire e San Pietro in Vaticano.
Nei secoli, la liturgia di Natale è andata sviluppandosi tessendo una lunga e meravigliosa veglia di preghiera, non solo per non essere da meno di quei pastori che duemila anni fa, vegliando tutta la notte, ebbero il dono di udire il canto degli angeli, vedere il Dio incarnato e contemplare la Theotokos, ma anche per esprimere la vigilante attesa, piena di speranza, della nuova venuta del Figlio di Dio, come Signore della storia.
E così, prima della riforma liturgica, la mattina della vigilia della Natività, l’introito e il graduale tendevano il più possibile la corda del desiderio: Hodie scietis, quia veniet Dominus, et salvabit nos: et mane videbitis gloriam ejus – Oggi saprete che verrà il Signore a salvarci, e domani vedrete la sua gloria. L’antifona al Magnificat dei Vespri di nuovo richiamava l’uomo a non disperdersi per unificare tutte le sue facoltà nella grande attesa: Cum ortus fuerit sol de caelo, videbitis Regem regum procedentem a Patre, tamquam sponsum de thalamo suo – Quando sarà sorto il sole, vedrete il Re dei re che procede dal Padre, come uno sposo che (esce) dal suo talamo.
La salmodia, i responsori e le letture del Mattutino, conclusi dal canto del Te Deum, conducono la veglia fino alla mezzanotte, il momento della celebrazione della prima Messa. Tutto il Proprio della Missa in nocte ruota attorno alla generazione eterna del Figlio dal Padre. Quel bambino che la Messa del giorno saluterà come “nato per noi” è anzitutto il Figlio eterno dell’eterno Padre. È il Suo Figlio, prima di essere nostro fratello. Dominus dixit ad me: Filius meus es tu, ego hodie genui te – Il Signore mi ha detto: tu sei mio Figlio, oggi ti ho generato (qui la versione gregoriana, e qui una versione secondo il canto romano antico). Questo introito, sul secondo modo gregoriano, che si sviluppa essenzialmente nell’intervallo re-fa, fa udire le parole che lo stesso Figlio rivolge a noi per renderci partecipi del mistero insondabile della Sua generazione dal Padre, traendole dal Salmo 2. È una melodia semplice, come è semplice Dio; sobria, per sostenere il clima di profonda adorazione e contemplazione della Notte santa. Se si guarda alla scrittura neumatica sangallese di questo introito, si può notare la caratteristica presenza di due distrofe e di tre tristrofe: le prime sulle due sillabe del dixit, le seconde sulla sillaba -mi di Dominus e sulla -o di ego e di hodie. Una struttura che rimanda al duplice mistero cantato nell’antifona: le due nature nel Figlio, seconda Persona della Trinità divina.
Conclusa la Messa, si iniziano immediatamente le Lodi e, dopo un po’ di riposo, l’ora Prima, al cui termine si celebra la Missa in aurora. Al sorgere del sole, la Chiesa eleva il suo canto per salutare Colui che è venuto a visitarci come sole che sorge (cf. Lc 1, 78). La quinta delle antifone maggiori dell’Avvento aveva invocato il Signore Gesù come “oriente”, splendore della luce eterna e sole di giustizia, implorandolo di venire presto ad illuminare noi uomini che sediamo nelle tenebre e nell’ombra della morte: O Oriens, splendor lucis aeternae, et sol justitiae: veni, et illumina sedentes in tenebris, et umbra mortis. Ora, l’introito della Messa dell’aurora saluta la Luce da Luce, che irradia dal Bambino adagiato nella mangiatoia e che è ben più di un semplice infante: Lux fulgebit hodie super nos: quia natus est nobis Dominus: et vocabitur Admirabilis, Deus, Princeps pacis, Pater futuri saeculi: cujus regni non erit finis - Oggi brillerà su di noi la luce, poiché è nato per noi il Signore; e sarà chiamato Ammirabile, Dio, Principe della pace, Padre dell’era futura, il cui regno non avrà fine. Il testo è la tessitura originale del capitolo nono del profeta Isaia, dal ben noto incipit: «Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse». All’hodie della generazione eterna, prima che la luce venisse creata, risponde l’hodie della generazione nel tempo della Luce increata.
Dopo una nuova breve pausa, la liturgia prevede il canto dell’ora Terza, che introduce la Missa in die: è la Messa più antica, alla quale poi si sono aggiunte le altre due. L’introito è la splendida risposta alla lunga attesa del tempo di Avvento, figura dell’attesa dei secoli: Puer natus est nobis, et filius datus est nobis: cujus imperium super humerum ejus: et vocabitur nomen ejus, magni consilii Angelus – Un bambino è nato a noi, ci è stato dato un figlio, sulle sue spalle è [il segno della] sovranità, e sarà chiamato Angelo del gran consiglio. Questo testo, tratto ancora una volta dal capitolo nono del profeta Isaia, fa risuonare sulla prima sillaba di Puer e sull’et che introduce filius un intervallo di quinta (sol-re), ponendo subito l’enfasi sul bambino (puer) nato per noi, riconosciuto tuttavia non come un bimbo qualunque, ma come il Re salutato da un duplice squillo di tromba. E infatti il seguito del testo parla della sua sovranità, con un’accentuazione proprio sulla parola imperium.
Il Proprio della Messa del giorno – come anche delle altre due Messe – creano un clima liturgico diverso da quello cui siamo abituati pensando al Natale. Ad essere proclamato è il mistero del grande Re (Introito), della salvezza tanto attesa e ora mostrata a tutti (Graduale), del Signore cui tutte le genti devono l’adorazione (Alleluia), del Dio cui appartengono i cieli e la terra (Offertorio). Lungi dal perdere di vista l’umiltà di Dio, l’intreccio di queste antifone crea la giusta tensione dello spirito dinnanzi al mistero indicibile del Dio che si fa uomo rimanendo Dio, del Re che si fa servo mantenendo la sua regalità.
Il canto gregoriano continua ad essere il canto proprio della liturgia romana, al quale dev’essere riservato il posto principale; ad affermarlo non è il Concilio di Trento, ma il Vaticano II (SC, 116). Eppure, la triste realtà è che è stato buttato fuori dalle nostre chiese, privando così i fedeli di un nutrimento insostituibile. Il proprio gregoriano è l’anima della liturgia della Chiesa, con i suoi rimandi e le sue peculiarità che danno il tono ad ogni festa e tempo dell’anno liturgico, nella Messa come nell’Ufficio Divino; ma per lui non si trova posto, proprio come per il Figlio di Dio. Esso conserva però tutto il suo vigore: basta ritrovare l’umiltà di accoglierlo e ascoltarlo.