Murgia, l'effetto empatia che nasconde il nichilismo
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È difficile non solidarizzare umanamente con Michela Murgia, che al Corsera rivela la sua grave malattia. Ma la partecipazione emotiva che suscita crea come un impedimento ad esercitare un giudizio chiaro sulla visione nichilista promossa e veicolata dalle sue parole di fronte all'eutanasia, la maternità, la famiglia.
È difficile non solidarizzare umanamente con Michela Murgia se nel bel mezzo di un’intervista a 360 gradi racconta della sua malattia. Ma proprio per questo non bisogna cadere nel tranello di confondere la partecipazione emotiva che suscita la sua chiacchierata con Aldo Cazzullo sul Corriere di domenica (QUI), con la visione dell’uomo che la scrittrice sarda snocciola.
La malattia che lei stessa ha annunciato finisce così per essere uno schermo che interrompe il giudizio – piuttosto grave - sulle sue parole a proposito di vita, famiglia e politica che denotano un pericoloso scivolamento verso quella cultura nichilista e radicale che fa breccia più facilmente se condita da un afflato sentimentale di compartecipazione.
Ha tutta l’aria di essere un’intervista che punta ad allargare ancora la finestra di Overton per far accettare per via simpatica quelle autoproclamate presunte verità che si stanno imponendo con la rivoluzione dei diritti. È un uso sapiente della narrazione confezionato da due professionisti della parola quali sono l’intervistata e l’intervistatore. Certe operazioni – nel bene come nel male - si fanno con i cavalli di razza. Ma proprio in questo sta il tranello.
Si parla di dolore, ma anche di diritti, di morte, ma anche di fascismo, di relazioni e di gender e il tutto, anche gli aspetti più critici rimangono come congelati dalla sua condizione di malata, di fronte alla quale ogni giudizio appare ingeneroso e ogni commento sbilanciato verso l’empatia umana. Ma finché si rimane a un livello prettamente emotivo.
Perché la Murgia racconta sì del tumore in fase avanzata che l’ha colpita e di fronte al quale mostra un’accettazione quasi stoica, che non può non far muovere a pietà il lettore, ma allo stesso tempo parla di molto altro e lo fa quasi sempre con la tecnica del sovvertimento della legge naturale universale che tenacemente nega.
Ad un certo punto arriva anche a dire che «il codice militare applicato a un’emergenza civile è un rischio potente per una democrazia. Nel momento più drammatico abbiamo affidato il governo a Draghi, un tecnico, e la vaccinazione a Figliuolo, un militare. La politica in quel momento si è arresa e ha ceduto il suo ruolo. La facilità con cui abbiamo sospeso le libertà dovrebbe atterrirci». Una frase assolutamente condivisibile e che denota uno sguardo sulla realtà oggettivo, però non sai a quel punto a chi credere: se prestare fede alle sue parole o ritornare alla memoria a quando, intervistata da Lilly Gruber era una testimonial del vaccino covid imposto proprio da questo sistema da “codice militare” che denuncia oggi, ma che ieri le faceva dire di “credere nella scienza”.
Si prova simpatia, dunque, anche quando utilizza il registro emozionale per affermare un manifesto di contro valori che hanno lo scopo di sovvertire e desacralizzare la vita e di un’idea di Dio troppo relativista per risultare politicamente scorretta.
Dire che «i bambini rompono i coglioni» per affermare il suo rifiuto della maternità fa sicuramente presa presso un certo pubblico che da tempo ha dichiarato guerra alla famiglia perché retaggio di un fascismo che oggi si vuole a tutti i costi appiccicare al governo Meloni, ma è una visione limitata della maternità, svilente e per certi versi ossessiva. I figli, si sa, poi crescono, maturano, diventano uomini e prendono il largo nel mare della vita e i genitori – come la partoriente del Vangelo – non ricordano più la fatica delle notti insonni e delle piazzate capricciose al ristorante perché quel rompicoglioni è cresciuto ed è diventato un uomo. Ridurre l’esperienza della maternità solo al bambino piccolo è di fatto un sovvertire l’idea di famiglia e di amore che sta dietro ogni progetto generativo.
Lo stesso vale per la famiglia. Per Murgia «le coppie finiscono per vivere di tradimenti e di bugie. Che diventano il loro segreto, e la loro vergogna», ad esse la scrittrice oppone quella che definisce «la mia queer family», ossia un agglomerato di dieci persone che hanno valore non per il grado di parentela, ma per quello delle relazioni. Gusti, si dirà, ma nel frattempo un altro colpetto alla stabilitas data da un rapporto che si fonda sul perdono, sulla fiducia, sull’amore, sul sangue, è dato.
Verrebbe da chiedersi perché una donna che sta facendo i conti con il termine della sua esistenza terrena, nel cui recinto sacrale nessuno – lo ribadiamo - deve osare intromettersi, sprechi poi così tante energie nell’affrontare questioni così terrene, che nello sguardo che si apre all’eternità si sciolgono come neve al sole: sperare di chiudere gli occhi dopo aver visto la fine del governo Meloni per il semplice motivo che esso è fascista, definire quel fascismo con l’opposizione del governo all’omogenitorialità e all’utero in affitto, non accorgersi che queste due pratiche sono invece l’acme dell’egoismo e della mercificazione dell’essere umano.
Poteva mancare un accenno all’eutanasia? No, infatti Cazzullo le offre l’assist partendo dal suo romanzo più celebre, Accabadora. Lei dice e non dice, poi fa riferimento ad una casa che ha comprato con dieci posti letto con cui trascorrere l’ultima parte della sua vita e infine rivela: «Lo Stato alla fine vorrà un nome legale che prenda le decisioni, ma non mi sto sposando solo per consentire a una persona di decidere per me. Amo e sono amata, i ruoli sono maschere che si assumono quando servono».
Che cosa dovrà decidere questa persona? L’impressione è che abbia a che fare con il biotestamento o – Dio non voglia – col suicidio assistito. In ogni caso, la Murgia sembra avere le idee chiare sulle sue ultime volontà: «Posso sopportare molto dolore, ma non di non essere presente a me stessa. Chi mi vuole bene sa cosa deve fare. Sono sempre stata vicina ai radicali, a Marco Cappato».
Non sappiamo che cosa abbia in mente, ma ancora una volta l’elemento del fine vita si insinua con il coinvolgimento emotivo di fronte al dolore, alla prova, alla sofferenza. E passa, attraverso la finestra di Overton, dallo step sensible (sensato, plausibile) a quello popular (diffuso e socialmente accettabile), ultimo passaggio prima della legalizzazione dell’eutanasia.
Le parole della Murgia riecheggiano molto l’ultima scena del recente Il Colibrì, film di Francesca Archibugi – a sua volta tratto dall’omonimo libro di Sandro Veronesi – interpretato magistralmente (ancora i cavalli di razza) da Piefrancesco Favino. Dopo una vita di fatiche, dolori, incomprensioni pur nel sostrato di un’esistenza tutto sommato ottimistica di fronte a tante prove, l’eutanasia fa la sua irruzione all’ultimo minuto, con una malattia, una compagnia di affetti e relazioni accumulate durante gli anni e un’accettazione, nichilista e rassegnata, dell’ineluttabilità di una puntura letale.
Dio non voglia che sia così anche per la scrittrice sarda, ma la finzione sembra qui diventare realtà. Come un programma che ha un suo svolgimento prestabilito da una precisa agenda.