Muhammad Ali, così si spiega la deriva dei media
L’assoluta glorificazione post-mortem di Muhammad Alì, nome che il pugile aveva assunto rifiutando quello di Cassius Clay, è un’ulteriore fase del processo di disfacimento della funzione originaria della stampa. Il pugile è stato usato per imbrigliare la rivolta violenta dei neri americani cui pensava Malcolm X.
L’enorme eco mediatica che, molto al di là dell’obiettiva importanza e della pur grande notorietà del personaggio, sta avendo in tutto il globo la morte di Muhammad Alì è in primo luogo un’altra conferma di ciò che sostanzialmente caratterizza il nostro tempo, ossia la fine dell’epoca moderna. Uno dopo l’altro ne stanno crollando tutti i pilastri: un crollo che talvolta, come in questo caso, assume la forma di una mostruosa manipolazione.
Nel secolo XVIII la stampa era nata come coscienza critica della società civile, come principale strumento di formazione dell’opinione pubblica, come presidio di libertà. Negli scorsi decenni, mano a mano che il mondo si è globalizzato, il controllo mondiale del campo dell’informazione è stato assunto da alcuni pochi “grossisti”, non più di quattro o cinque se non meno, strettamente legati ai governi delle grandi potenze, i quali detengono il fondamentale potere del controllo del “palcoscenico”: hanno cioè il potere di decidere quali porre al centro del palcoscenico mediatico fra tutti gli eventi di grande rilievo del momento.
L’importanza obiettiva aiuta, di regola è necessaria, ma non è mai sufficiente. La settimana scorsa nell’Ecuador un terremoto catastrofico ha provocato danni e perdite di vite umane forse paragonabili a quelli del terremoto del 2010 ad Haiti. Eppure, la notizia non è andata oltre l’Ecuador e gli ambienti dell’emigrazione ecuadoriana nel mondo. Facciamo poi un caso più vicino a noi, quello dei migranti irregolari diretti verso l’Unione europea. Secondo le convenienze di chi guida l’informazione i riflettori vengono puntati verso la via marittima attraverso il Mediterraneo oppure verso la via terrestre attraverso il Sudest europeo, che per l’occasione diventa tutto quanto “Balcani”. Ci sono le settimane in cui non si vedono altro che barconi e gommoni, e altre in cui non vedono altro che persone ammassate a ridosso di confini terrestri loro preclusi.
Nel caso dell’assoluta glorificazione acritica post-mortem di Muhammad Alì, nome che il pugile aveva assunto dopo la sua conversione all’islam rifiutando quello anagrafico di Cassius Clay, siamo a un episodio esemplare di un’ulteriore fase del processo di disfacimento della funzione originaria della stampa, dei media. Muhammad Alì si era ritagliato un ruolo di araldo sostanzialmente innocuo in un movimento rivoluzionario costato la vita a molti di coloro che vi si erano davvero impegnati. Un movimento che negli Stati Uniti della fine del secolo scorso venne represso usando ogni mezzo, non solo legale ma anche illegale, come bene si vide nell’oscura vicenda dell’uccisione del suo leader Malcolm X. Trasformato in una bomba accuratamente disinnescata, Muhammad Alì svolse con veemenza il ruolo di grande consolatore mediatico di chi aveva sperato nella rivolta violenta dei neri americani cui pensava Malcolm X.
Una volta che fu chiaro che la sua scelta era definitiva, Muhammad Alì, che senza dubbio aveva tutti i numeri per reggere la parte, venne costruito come personaggio-simbolo di qualcosa di niente di preciso, ma comunque di attinente a temi libertari. Giganti dell’ordine costituito come i presidenti Bush Jr. e Obama lo hanno portato sui loro altari, ed è stato annunciato che l’ex presidente Bill Clinton sarà l’oratore ufficiale delle sue esequie. Questo già dovrebbe bastare per capire di quale pasta sia il mito di Muhammad Alì anche al di là della realtà della sua vicenda umana, che ovviamente non possiamo di certo giudicare, tanto più solo sulla base della sua immagine mediatica.