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GRANDI CAPOLAVORI CRISTIANI/7

Mounier, la dottrina e il mistero della sofferenza

Nato a Grenoble nel 1905, affascinato dagli intellettuali Péguy, Berdjaev e Maritain, Emmanuel Mounier fonda nel 1932 la rivista Esprit con l’intento di creare un luogo di cultura che possa dare spazio alla profonda crisi di civiltà. «Occorre soffrire perché la verità non si cristallizzi in dottrina, ma nasca dalla carne».

Cultura 03_07_2016
 Emmanuel Mounier

Nato a Grenoble nel 1905, affascinato dagli intellettuali Péguy, Berdjaev e Maritain, Emmanuel Mounier fonda nel 1932 la rivista Esprit con l’intento di creare un luogo di cultura e di espressione che possa dare spazio alla profonda crisi di civiltà che sta attraversando la sua epoca. Mounier è fermamente convinto che alla luce dell’avvenimento cristiano possano essere affrontate con un rigore, con una speranza e con un entusiasmo differenti tutte le sfide della modernità come pure tutte le circostanze quotidiane. Mounier muore nel 1950 a Châtenay-Malabry.

Un esempio emblematico della fede e della posizione esistenziale in Mounier è rappresentato dalle magnifiche lettere da lui scritte alla moglie e  agli amici. Il 25 maggio 1928 Mounier così si rivolge a J. Chevalier in seguito alla morte di un amico: «Il giorno della morte del mio amico […] ha portato in primo piano, tra i miei pensieri, tutto il dramma di una vita che aveva in sé il dramma di una famiglia, di una generazione, di un’umanità. Ne ho ricevuto un tale arricchimento che, nonostante l’irreparabile, ci sono delle ore e delle settimane  che non vorrei non aver vissuto. E penso che sia proprio questo che manca soprattutto a quelle anime tronfie di professori: il sacrificio accettato spontaneamente, o la prova, […]. La nozione stessa, la nozione concreta della miseria umana (come della sua vera grandezza): non conoscono l’ospedale se non dall’interno delle loro commissioni d’igiene». 

Mounier è consapevole che solo nell’esperienza si può arrivare alla verità della vita, non stando ”di fuori”, non nella retorica e nei bei discorsi, non nella dottrina disincarnata. Scrive, infatti: «Occorre soffrire perché la verità non si cristallizzi in dottrina, ma nasca dalla carne. Questa sera ho la consapevolezza che non difendo una posizione» (dalla lettera del 3 gennaio 1933). Nel contempo, però, «non resta che una cosa: pregare, perché le tenebre non si confondano con la luce» (dalla lettera del 25 gennaio 1933). 

Mounier non crea, però, una morale del «sacrificio per il sacrificio», «un’etica della sofferenza per la sofferenza». Infatti, a Paulette Leclerq, che diventerà la sua futura moglie, attesta: «Accettare la volontà di Dio non significa umanizzare l’amore soprannaturale della sofferenza e della rinuncia, significa invece accettarla in qualsiasi modo essa si manifesti, anche se dovesse essere conforme ai miei desideri umani; nemmeno il sacrificio deve venire prima; bisogna essere preparati a tutto, anche alla felicità. È in questo modo che si santifica la felicità» (lettera del 12 febbraio 1933).

Quando, poi, scoppiata già la guerra, si ammala la piccola e amata figlia Francoise, il suo cuore si spalanca alla rivelazione del Mistero in qualunque modo esso si manifesti sino all’attesa del miracolo della guarigione. L’1 marzo 1940 Mounier scrive all’amico J. Leclerq: «Amavamo la felicità tanto più desiderata in quanto non era solo felicità. Ci è stata chiesta una rinuncia un po’ brutale […]. È certo che ne usciremo più arricchiti. Forse con una specie di felicità, forse con la sventura (non lo possiamo prevedere), ma più ricchi. E se avremo la felicità, Francoise guarita o qualche altra cosa, ce ne serviremo con più delicatezza». Emergono da queste righe un senso di dipendenza dal Mistero, più grande di noi, che fa tutte le cose, una tenerezza che abbraccia tutto senza pretese di dare risposte immediate, ma con «la delicatezza» della domanda  e dell’attesa, non della pretesa.

Così, quando la situazione della figlia si aggrava, questa stessa pura domanda sembra già spalancarsi ad un abbozzo di risposta: «Che senso avrebbe tutto questo se la nostra bambina fosse soltanto una carne malata, un po’ di vita dolorante, e non invece una bianca piccola ostia che ci supera tutti, un’immensità di mistero e di amore che ci abbaglierebbe se lo vedessimo faccia a faccia?» (lettera del 20 marzo 1940 alla moglie Paulette). L’atteggiamento di domanda e di preghiera si tramuta in offerta: «Non dobbiamo pensare al dolore come a qualcosa che ci viene strappato, ma come qualcosa che noi doniamo, per non demeritare del piccolo Cristo che si trova in mezzo a noi, per non lasciarlo solo ad agire col Cristo. Non voglio che si perdano questi giorni, dobbiamo accettarli per quello che sono: giorni pieni d’una grazia sconosciuta».

Questo è l’atteggiamento più umano, anche di fronte alla malattia e alla sofferenza: domandare che nulla vada perduto, che nessun giorno sia sciupato. Così, anche nella stanchezza, una calma pervade il cuore nella percezione e speranza di una positività ultima. L’11 aprile, dunque, rivolge alla moglie queste parole: «Sento come te una grande stanchezza e una grande calma mescolate insieme, sento che il reale, il positivo sono dati dalla calma, dall’amore della nostra bambina che si trasforma dolcemente in offerta, in una tenerezza che l’oltrepassa, che parte da lei, ritorna a lei, ci trasforma con lei, e che la stanchezza appartiene soltanto al corpo che è così fragile per questa luce e per tutto ciò che c’era in noi di abituale, di possessivo, con la nostra bambina che si consuma dolcemente per un amore più bello. Dobbiamo essere forti con la preghiera, l’amore, l’abbandono, la volontà di conservare la gioia profonda nel cuore».

Alla morte della piccola Francoise, in risposta a quanti sostengono che sia capitata loro una grande disgrazia,  Mounier attesta: «Invece non si tratta di una disgrazia: siamo stati visitati da qualcuno molto grande. Così non ci siamo fatti delle prediche. Non restava che fare silenzio dinanzi a questo nuovo mistero, che poco a poco ci ha pervaso della sua gioia […]. Ho avuto la sensazione, avvicinandomi al suo piccolo letto senza voce, di avvicinarmi a un altare, a qualche luogo sacro dove Dio parlava attraverso un segno. Ho avvertito una tristezza che mi toccava profondamente, ma leggera e come trasfigurata. E intorno ad essa mi sono posto, non ho altra parola,  in adorazione. Certamente non ho mai conosciuto così intensamente lo stato di preghiera come quando la mia mano parlava a quella fronte che non rispondeva, come quando i miei occhi hanno osato rivolgersi a quello sguardo assente […]. Mia piccola Francoise, tu sei per me l’immagine della fede. Quaggiù la conoscerete in enigma e come in uno specchio».

Per Mounier la sperimentazione del «centuplo quaggiù» non consiste nell’eliminazione dei problemi, ma in uno sguardo nuovo sulla realtà attraverso il quale anche il male viene guardato diversamente, con una misericordia che abbraccia sé e l’altro, nella consapevolezza che il mysterium iniquitatis trova solo in Cristo una plausibile risposta. Mounier sta di fronte alla sofferenza mantenendo vivo il suo desiderio di felicità infinita in forza della promessa di Cristo che neanche un capello del suo capo andrà perduto. Proprio in forza di questa promessa Mounier vive diversamente anche la sofferenza e la malattia, condivide il dramma della malattia di un amico o di un proprio caro con una serenità e una letizia al fondo, che non derivano da superficialità o da cieco ottimismo.