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IL VERO VACCINO

Morire pronti, è di questo che abbiamo bisogno

Si sente dire che chi domanda che si tornino a celebrare le Messe, chi si reca in chiesa, cercando magari un sacerdote a cui chiedere confessione ed Eucarestia, è un egoista. Eppure, pensando a noi, alle persone care o più a rischio, ciò che fa più paura non è la morte ma il lasciare questo mondo terrorizzati e senza essere preparati. La morte non deve diventare un tabù per la Chiesa: di questa abbiamo bisogno di sentir parlare e della speranza nella vita eterna.

Editoriali 17_03_2020 English Español

Mentre si discute se sia giusto o meno escludere il popolo dei fedeli cattolici dalla partecipazione al Sacrificio Eucaristico, mentre alcuni religiosi, sacerdoti e vescovi si apprestano a fare compagnia ai fedeli tramite i social, mentre girano video sul significato del castigo (Dio castiga o meno?) o sulla paura, con diverse riflessioni teologiche. Mentre si sostiene che la Comunione oggi la stiamo vivendo anche se in un’altra forma (e speriamo che a furia di dirlo non ci abituiamo a pensare che ricevere o meno il corpo di Cristo sia lo stesso o che la Messa in tv e quella reale siano in fondo non troppo diverse). Mentre ognuno manda il suo messaggio, mentre si invita la gente a rimanere a casa per prudenza e perché alla Chiesa interessa giustamente anche la salute del corpo, sorge spontanea una domanda: ma quello di cui si deve curare più di tutto la Chiesa non è la salute dell’anima?

La gente è chiusa in casa e il rischio è che, sempre più dipendente ed istruita come non mai ad utilizzare le nuove tecnologie sostituendole ai contatti reali (non sarà facile tornare indieto), passi la giornata fra due atteggiamenti: il terrore dovuto al bombardamento mediatico sulle morti da Covid-19 e il fuggire il pensiero della morte anche tramite video e visualizzazione di messaggi di ogni tipo (sms, Facebook, Whatsapp) che cercando di far credere che "tutto andrà bene" rischiano di farci evadere. Infatti, pensando alla realtà drammatica in cui siamo immersi nessuna di queste due posizioni è adeguata. Nessuna delle due aiuta davvero ad affrontare la crisi. La Chiesa, infatti, che non è mai stata né pessimista (o vi chiudete in casa o morirete tutti) né ottimista (se state in casa non morirete) è chiamata più che mai ad essere realista. Ossia ad aiutare tutti a guardare al fatto della morte e a prepararsi ad essa.

Il realismo, infatti, aiuta ad aiutare. Pensando, ad esempio, ai morti di questi giorni, per cui in alcuni ospedali mancano persino i sacchi in cui avvolgere i loro corpi (non è dovunque così, sia chiaro), fa più paura che non la morte il fatto che la gente perda la vita senza il conforto dei propri cari e soprattutto senza sacramenti (dicono che mancano i dispositivi di sicurezza per far entrare i sacerdoti nei reparti di terapia intensiva…) né funerali. Viene quindi da domandarsi come la Chiesa possa affrontare la situazione proprio dal punto di vista di queste anime (che pensare alla salute pubblica è compito dello Stato). Magari aiutando medici e infermieri a capire che tipo di supporto spirituale possono dare ai malati o ricordando a chi teme la morte quello che Gesù disse a Marta: «Chi crede in me, anche se muore, vivrà; anzi chi vive e crede in me non morirà mai». Perciò, oltre che cercare di rimandare la morte, un cristiano dovrebbe soprattutto preoccuparsi, se dovesse toccare a lui o a qualcuno dei suoi cari, di arrivare pronto a quel momento che ci spaventa ma che tocca tutti.

Si sente dire, anche fra credenti, che chi domanda che si tornino a celebrare le Messe, chi si reca in chiesa o ad adorare il Santissimo, cercando magari un sacerdote a cui chiedere la confessione e l’Eucarestia (con le dovute precauzioni, come le distanze di sicurezza o le mascherine), è un egoista. Si afferma che ora la carità cristiana si esercita stando in casa per mettere in sicurezza i nostri cari (anche se le chiese sono aperte e lo Stato ha vietato solo gli assembramenti). Eppure, pensando proprio alle persone più a rischio, per loro e per noi ciò che si bisognerebbe maggiormente temere in questo momento non è la morte (che volenti o nolenti può colpirli e che prima o poi ci colpirà tutti), bensì il lasciare questo mondo terrorizzati.

E allora, se da una parte si cerca di tutelare le persone più fragili, evitando troppe visite, consigliando loro di farsi una passeggiata ma da soli (che fa bene all’umore e quindi al sistema immunitario), di recarsi in chiesa, di munirsi di mascherine, di lavarsi le mani etc., ma comunque di vivere, perché si può ridurre il rischio della morte ma non a zero (vivere è andare verso la morte), non si può non desiderare che ci sia qualcuno che li prepari. Che incontrino, magari fra gli scranni delle chiese (alcune sono completamente abbandonate), sacerdoti disposti a confessarli (ripetiamo, per non essere fraintesi, ad un metro di distanza), a mostrare loro il volto del Padre, ad invitarli a perdonare i torti subiti, a riconciliarsi con Dio e gli uomini, o a dare loro la Comunione. Anche perché le misure strettissime scelte dal governo non fanno che alimentare la paura, il sospetto e quindi le tensioni fra la gente (è emblematico che si parli di altruismo nel tutelare gli anziani, mentre c'è già chi ne ha denunciati alcuni perché si sono fermati a chiacchierare).

Abbiamo bisogno, come ha scritto Costanza Miriano, di essere richiamati più che mai ai sacramenti e ai novissimi, al senso della sofferenza. Alla misericordia di Dio, al pentimento dei peccati, a come sono morti i santi. Mai come ora la morte non deve diventare un tabù per la Chiesa. È di questa che abbiamo bisogno di sentir parlare, di questa e della speranza della vita eterna. Viene in mente a questo proposito quello che raccontò il medico della serva di Dio Chiara Corbella poco prima che morisse: «In quella Messa celebrata all’una di notte… facciamo la Comunione… A questo punto la sento (Chiara, ndr) dire: “Ahhh… Mo’ posso anche vomitare!”. Io, che ero più angosciato di tutti per questo vomito, capisco. Era arrivato il vero Medico: Chiara aveva fatto la Comunione…Il Medico di Chiara era solo uno, era Nostro Signore. Lei voleva solo quello. "Ahhh… Adesso posso anche vomitare, posso anche tossire, posso anche morire. Non mi importa niente”». Chiara è morta ricordando a tutti che tutti faremo la stessa fine. E lo ha fatto perché, grazie alla compagnia costante di un frate che non le ha mai mentito sull’eventualità del decesso, voleva dirci che si può salire al cielo così, in pace nell'andare a Dio.

Non è questo che in fondo desideriamo, più che di scampare la morte? Se tutti i defunti da coronavirus fossero stati preparati a morire così, non saremmo tutti meno impauriti di fronte ai decessi di questi giorni? E forse persino disposti a rischiare un po’ di più, anziché cercare di illuderci che smettendo di vivere avremo scampato la morte? Non sarebbe questa la vera vittoria contro il virus? Non è questa l'unica partita che la Chiesa, oggi più che mai, può giocare e vincere in un'ora così grave per cui l'uomo è più disposto ad ascoltare?