Molti immigrati non sono profughi. Tusk lo riconosce
“Come abbiamo deciso due settimane fa, dobbiamo fermare questa pratica del ‘passate tutti’. Voglio fare un appello a tutti i potenziali migranti economici illegali, dovunque siano: non venite in Europa”. Alle prese con la grande crisi degli immigrati, il presidente del Consiglio Europeo parla fuori dai denti.
“Come abbiamo deciso due settimane fa, dobbiamo fermare questa pratica del ‘passate tutti’. Ci stiamo provando in questo momento, mentre parliamo. Voglio fare un appello a tutti i potenziali migranti economici illegali, dovunque siano: non venite in Europa”. Non è un leader populista a pronunciare queste parole, ma il presidente del Consiglio Europeo, il polacco Donald Tusk. Lo ha dichiarato ad Atene, nel corso della sua visita ai paesi del Sudest europeo e alla Turchia, la prima linea della crisi dell’immigrazione.
I numeri parlano da soli: in Grecia ci sono circa 25mila immigrati bloccati alla frontiera con la Macedonia, dopo che la repubblica ex jugoslava ha chiuso le porte al transito illimitato (l’estate scorsa aveva assunto la linea opposta, provocando la grande migrazione sulla rotta balcanica). Ora passano solo poche centinaia di persone alla volta, fino a un massimo di 300 al giorno e l’esercito presidia i valichi. Il motivo del cambio di rotta? La chiusura delle frontiere da parte di Ungheria e Austria e il netto rifiuto del piano di redistribuzione da parte dei paesi del gruppo Visegrad (fra cui la Polonia). Ma il Nord della Grecia non è l’unica area di crisi. Basti pensare che sull’isola di Lesbo, non lontana dalle coste turche, sono stipati 75mila immigrati. In Grecia, in totale, sono arrivate 857mila persone nel corso del 2015 e sono già più di 123mila quelli sbarcati nei primi due mesi del 2016. Una marea umana ingestibile. L’obiettivo minimo che l’Ue si prefigge è di ridurre gli sbarchi a meno di 1000 al giorno. E 1000 arrivi al giorno era considerato un motivo di seria preoccupazione, se non di emergenza conclamata, almeno fino al 2014.
Tusk risponde ad una necessità interna e ad una europea. Sul piano interno, la Polonia, sia quando al governo c’erano i liberali di Tusk, sia adesso che è presieduta dal conservatore Andrzej Duda, non ha alcuna intenzione di partecipare al piano di redistribuzione. Dal punto di vista di Varsavia è una questione di principio, di preservazione della sovranità dalle imposizioni europee, oltre che l’ammissione di non poter fare molto per gestire l’arrivo di immigrati e profughi, considerando, poi, che la Polonia confina con un’altra area di emergenza umanitaria, quale è l’Ucraina. Se predicasse la porta aperta, Tusk si brucerebbe in patria. Ma la Polonia è l’ultimo dei pensieri, perché la crisi senza precedenti è il fattore centrifugo più forte della storia recente europea, addirittura maggiore rispetto alla crisi economica. Lo dimostra la facilità con cui vengono ripristinati i controlli alle frontiere e i toni del colloquio, avvenuto sempre ieri, fra il premier britannico David Cameron e il presidente francese François Hollande: la “giungla” (l'accampamento degli emigranti a Calais) è stata rasa al suolo dalle ruspe, ma l’inquilino dell’Eliseo ha avvertito che in caso di uscita del Regno Unito dall’Ue ci saranno “conseguenze”, non ben specificate, anche sull’immigrazione. Un accordo sulla politica di immigrazione comune non è ancora stato trovato. Ciascun paese fa da sé e minaccia di chiudere con i vicini.
E’ in questo contesto che Donald Tusk ha lanciato l’appello direttamente agli immigrati, che suona come un: per favore non venite (se proprio non siete in pericolo imminente), perché non ce la facciamo più. E, nella stessa occasione, ha promesso ai paesi vicini alla Siria: vi paghiamo, se vi tenete voi i profughi. Perché non ha altro significato: “Mentre rafforziamo i controlli ai nostri confini esterni dobbiamo aumentare in modo massiccio il nostro sostegno ai rifugiati siriani e i Paesi che confinano con la Siria, oltre ad aiutare ad affrontare le conseguenze negative della crisi nei Paesi membri più colpiti, soprattutto in Grecia”. Per quanto riguarda la repubblica ellenica, Tusk rassicura il premier Alexis Tsipras che temeva di essere escluso dall’area Schengen. Il presidente del Consiglio europeo ha affidato a Twitter l’opinione: "Escludere la Grecia da Schengen non è né un fine né un mezzo. La Grecia resterà a far parte di Schengen, dell'Eurozona e della Ue”. Ma non è finita qui, perché Atene chiede aiuti concreti. E quindi, conclude Tusk: “E' una questione della massima urgenza ed è per questo che accolgo con favore l'annuncio di ieri della Commissione di un nuovo strumento per l'assistenza di emergenza da 700 milioni di euro per gli Stati membri dell'Ue, e in particolare la Grecia, che stanno fronteggiando una straordinaria crisi umanitaria”. Tsipras, dal canto suo chiede anche “sanzioni contro gli Stati membri che con le loro azioni unilaterali nelle ultime due settimane hanno persino indebolito” la gestione dei flussi migratori. E in questo caso si riferisce alla stessa Polonia. La Grecia sta tastando il terreno anche con la Turchia, da cui arriva la stragrande maggioranza dei profughi siriani, iracheni e afgani. Un vertice turco-europeo si terrà a Bruxelles il prossimo 7 marzo.
"Non credete ai trafficanti - dice Tusk nel suo appello rivolto agli immigrati - non rischiate le vostre vite e i vostri soldi: non serve a niente. La Grecia o qualsiasi altro Paese europeo non saranno più Paesi di transito: le regole di Schengen entreranno in vigore ancora". E usando questo linguaggio, dividendo il concetto di “profugo” da quello di “migrante economico illegale”, Tusk ha deliberatamente abbattuto un muro dell’informazione. Finora l’onda umana era conosciuta solo come “crisi dei rifugiati”, anche se coloro che arrivano in gran numero da Eritrea, Nigeria, Pakistan, Albania e Serbia, giusto per citare alcuni dei gruppi di emigranti più numerosi, provengono sì da situazioni difficili, ma in paesi in pace. Non sono in fuga da una morte certa, come potrebbero esserlo i siriani (la maggioranza assoluta dei profughi) o gli iracheni, allargando il quadro anche gli afgani. Ma sono persone che scelgono condizioni di vita migliori. A loro, finalmente, qualcuno ha rivolto la domanda più razionale: hanno rischiato la pelle e speso migliaia di euro, come minimo hanno navigato su una carretta o nascosti in una stiva, nel peggiore dei casi hanno attraversato anche il deserto, patendo la fame, la sete e i predoni, ma… ne valeva la pena?