Modificare gli embrioni spalanca le porte all’eugenetica
Il via libera del governo inglese a sperimentare modificazioni genetiche su embrioni umani utilizzando la controversa tecnica di editing genomico sta scatenando polemiche. Enormi, infatti, sono i rischi che tale tecnica comporta e grandi le riserve etiche su questa sperimentazione.
Ha suscitato dibattito la notizia dell’autorizzazione della anglosassone Human Feritilisation and Embryology Authority a sperimentare modificazioni genetiche su embrioni umani utilizzando la controversa tecnica di editing genomico dall’acronimo “Crispr-Cas9” che permette di introdurre modifiche nelle molecole del dna cellulare. Gravissime sono, infatti, le perplessità sulla eticità di tali interventi ed anche le implicazioni legate alla sua sicurezza per i rischi di pericolose modificazioni genetiche trasmissibili a fronte di tenui o inesistenti possibilità terapeutiche.
Gli studi su embrioni di animale hanno finora evidenziato che è possibile cancellare o disabilitare geni solo in una parte di cellule dell’embrione. Appare molto difficile controllare esattamente quante cellule sono state modificate e molto elevato è il rischio che tagli del genoma si verifichino in punti non previsti o voluti. Il preciso effetto di una tale modificazione è impossibile da prevedere e lo si può potrebbe valutare solo dopo la nascita. Per questo, nel mondo la maggior parte dei Paesi hanno espressamente proibito l’utilizzo di questa tecnica per modificare embrioni e cellule germinali.
Tralasciando gli aspetti tecnici è importante riconoscere che diversa è ricaduta etica che ha l’utilizzo di tali tecniche se riguardano cellule adulte sulle quali sono in corso trial clinici (per esempio per valutare l’applicazione di tali tecnologie nella cura di Aids modificando i T linfociti e quelli per la cura della beta-talassemia ). Anche per questo si teme che questa scelta dissennata dell’authority anglosassone possa avere un impatto negativo sulle ricerche di editing che riguardano cellule somatiche dalle quali ci si aspetta, invece, risultati terapeutici.
Di fronte a queste scelte sono tuttavia necessarie alcune riflessioni generali perché il loro impatto antropologico è tale che si prospetta un futuro piuttosto preoccupante. C’è stato un tempo in cui la conoscenza e la scienza erano la base su cui costruire tecnologie innovative. Oggi il metodo sembra essersi rovesciato e assistiamo a un paradosso: le tecnologie hanno superato il livello di conoscenza rischiando così di rendere drammaticamente pericoloso il procedere. Se è permesso un paragone, soprattutto nell’ambito di quelle che sono definite “scienze della vita”, ci si trova spesso in situazioni simili a quelle di un automobilista alla guida di notte su una strada di cui non si conosce bene il fondo, le curve, gli incroci. In definitiva, tutti i rischi.
Qualcosa di simile sta capitando alla cosiddetta nuova genetica che realizza la massima “con-fusione” tra la vera natura dell’arte medica (intesa come modalità del “prendersi cura della persona malata”) e le forme più spregiudicate della biologia sperimentale. Oggi la chiamano “biomedicina”. L’imprudente scelta anglosassone di promuovere le ricerche di “gene editing” su embrioni umani si pone in questo contesto. Non solo perché dei circa 30mila geni umani ne conosciamo solo una piccola percentuale ma, soprattutto, perché sappiamo poco anche di questi e quasi nulla delle loro interazioni. Di fronte a tanta ignoranza disponiamo, tuttavia, di una formidabile tecnica “taglia e cuci” che ci permette di silenziare, spostare, cambiare i geni come ci pare. Una situazione paragonabile a quella di un bambino inglese di tre anni che gioca con un computer a copia-incolla del testo di un romanzo scritto in sanscrito. Purtroppo, per sapere il risultato di questo nuovo editing e cioè capire se abbia un senso e quale, bisognerebbe sottoporre il testo a qualcuno di lingua madre.
In biologia l’editing genetico embrionale darà la sua vera risposta solo dopo che, impiantato in utero, si potrà sviluppare e nascere. Per fortuna, per ora non lo si può fare, ma questo, evidentemente, è lo scopo di tale ricerca . A parte quindi ogni grave considerazione etica circa la sperimentazione che viene comunque eseguita su embrioni umani, (destinati ad essere manipolati e a non nascere), le perplessità di molti scienziati riguardano proprio quelli che prima o poi nasceranno. Saranno davvero più sani perché geneticamente “aggiustati”? Non si sta in questo modo asfaltando la strada maestra dell’eugenetica (già drammaticamente praticata con le selezioni embrionali)?
Nella recente enciclica Laudato sì di papa Francesco numerosi sono i riferimenti al tremendo potere delle nuove tecnologie. Come spiega Francesco: «Mai l’umanità ha avuto tanto potere su sé stessa e niente garantisce che lo utilizzerà bene, soprattutto se si considera il modo in cui se ne sta servendo».Il Papa cita a tale proposito anche Romano Guardini che con grande intuito molti anni fa descriveva come un grave errore di prospettiva il credere che «ogni acquisto di potenza sia semplicemente progresso, accrescimento di sicurezza, di utilità, di benessere, di forza vitale, di pienezza di valori » come se la realtà, il bene e la verità sbocciassero spontaneamente dal potere stesso della tecnologia e dell’economia. Il fatto è che «l’uomo moderno non è stato nel contempo educato al retto uso della sua potenza . E oggi la possibilità di usare male la sua potenza è in continuo aumento spesso sotto la spinta di pretese necessità di utilità e sicurezza ( n 104, 105). Infatti, ricorda ancora Francesco, (al n 114) i prodotti della tecnica non sono neutri perché creano una trama capace di condizionare gli stili di vita e anche le scelte apparentemente strumentali sono attinenti al tipo di vita che si vuole sviluppare.
Come ebbe a scrivere nella stupenda enciclica Fides et Ratio, san Giovanni Paolo II: «La conoscenze fondamentali scaturiscono dalla meraviglia suscitata nell’uomo dalla contemplazione del creato». Le tecnologie sembrano invece più propense ad accondiscendere a logiche di mercato e ad alimentare la tentazione del potere dell’uomo sulla natura e sullo stesso essere umano. Per questo, cogliere la misteriosa bellezza della vita ( anche biologica) prima di manipolarla è una condizione fondamentale che aiuta ad usare bene gli strumenti di cui disponiamo. E questo potrebbe forse anche evitare di essere minacciati dai risultati del lavoro delle nostre stesse mani. La radice del bene è nel vero e nel bello su cui il teologo Hans Urs von Balthasar ha scritto pagine profetiche: «non è la bellezza ad averci abbandonato, siamo noi che non siamo più in grado di vederla (…) e in un mondo senza bellezza anche il bene ha perduto la sua forza di attrazione». Auguriamoci che l’anno giubilare della Misericordia ci aiuti a riscoprire questa “Bellezza” per il bene nostro e di ogni uomo.
*presidente Gism (Gruppo Italiano Staminali Mesenchimali)