Moby Dick, un "poema sacro" incompreso
Duecento anni fa nasceva, nella giovane America che aveva da poco conquistato la propria indipendenza, Herman Melville, diventato immortale per il suo celebre Moby Dick. Un grande classico della letteratura di cui ben pochi però hanno colto il profondo senso religioso.
Duecento anni fa, nella giovane America che aveva da poco conquistato la propria indipendenza, in una New York non ancora metropoli ma già principale porto, nasceva Herman Melville, lo scrittore che insieme all’amico Hawthorne fu il fondatore del Romanzo Americano, diventato immortale per il suo celebre Moby Dick.
In pieno ‘800, secolo della scienza e della tecnologia, del trionfo delle macchine, un uomo dal cuore sognante, malinconico e avventuroso, scrisse un grande classico della letteratura, un libro complesso all’apparenza semplice. Scritto nel 1851, Moby Dick continua ad essere pubblicato, letto, magari reinterpretato nel cinema, nel teatro, nella musica, anche se ben pochi hanno colto il profondo senso religioso di quest’opera.
La storia è ben nota: la caccia a una balena bianca di nome Moby Dick da parte di un capitano di nome Achab che conduce la sua nave, il Pequod, e il suo equipaggio della sua nave, in un folle, allucinato inseguimento del cetaceo per i mari di tutto il mondo. Il libro in realtà è molto più profondo di quanto possa sembrare all’apparenza, assumendo una dimensione mitica. Tutto in Moby Dick sembra essere fuori dal tempo e dallo spazio: la caccia sembra non finire mai, il Pequod veleggia sulle acque di oceani senza fine, tutto sembra muoversi e stare fermo allo stesso tempo.
Se il valore di Moby-Dick consistesse nella trama, si potrebbe anche buttare a mare (termine quanto mai adeguato) due terzi del romanzo, come avviene nelle riduzioni per ragazzi. Per vendicarsi di una balena che gli ha strappato una gamba, un vecchio pazzo monomaniaco conduce la sua ciurma alla rovina. Ma il romanzo è davvero tutto qui? Che farsene allora di capitoli digressivi che paiono abbracciare tutto lo scibile, applicandolo alla balena e alla sua caccia? Dalla biologia alla paleontologia, dalle fonti storiche alle leggende marittime, dalle analisi iconografiche alle comparazioni anatomiche, Melville perlustra palmo a palmo, centimetro per centimetro il più enorme essere vivente che solchi il nostro globo – fronte, mascella, sfiatatoio, coda, viscere, scheletro, abitudini – tentando di penetrarne il mistero maestoso e terribile.
È il mondo di Moby Dick, il mondo degli esseri che si muovono negli abissi.
Vi è poi il mondo di Achab, il mondo dei piccoli uomini che si muovono sulla superficie dell’acqua: un mondo di carte nautiche, ramponi, forcelle, sagole, aste, quadranti, moschetti, solcometri, cisterne, buglioli, tecniche di lancio e di squartamento… un mondo tecnico, appunto, che ci viene raccontato con precisione linguistica in ogni suo dettaglio. E così, tra una dissertazione e l’altra, Moby Dick ci appare come un compendio – ora epico, ora ironico – dove convergono informazioni di ogni genere e che tuttavia rimandano sempre al mondo della balena o al mondo della sua caccia, come se il Sapere stesso dovesse schierarsi in favore dell’uno o dell’altro, fino al grandioso, tragico finale.
Tutto il libro comunque parla di avventura, di ricerca, e di fede. Lo aveva compreso perfettamente il primo traduttore italiano del capolavoro di Melville, Cesare Pavese: “Leggete quest’opera (Moby Dick) tenendo a mente la Bibbia e vedrete come quello che vi potrebbe anche parere un curioso romanzo d’avventure, un poco lungo a dire il vero e un poco oscuro, vi si svelerà invece per un vero e proprio poema sacro cui non sono mancati né il cielo né la terra a por mano". Così scriveva Pavese, che nel 1932 per la prima volta tradusse in italiano Moby Dick. Pavese aveva allora ventiquattro anni, e si era appena laureato con una tesi mirabile sulla poetica di Walt Whitman, grande scrittore americano dell’800.
Lo scrittore torinese era rimasto profondamente colpito dall’opera di Melville, tanto che non sapeva staccarsene. La Balena, che inizialmente per Pavese rappresentava il vuoto, il nulla mostruoso, ora sottende il mito, un conflitto cosmico ancestrale accettato stoicamente. “La coerenza del libro si celebra proprio in questa tensione che l'ombra fuggente del mistico Moby Dick induce nei suoi ricercatori. (…) La ricchezza di una favola sta nella capacità che essa possiede di simboleggiare il maggior numero di esperienze. Moby Dick rappresenta un antagonismo puro, e perciò Achab e il suo Nemico formano una paradossale coppia di inseparabili. Dopo tante disquisizioni, tanti trattati e tanta passione, l'annientamento davanti al sacro mistero del Male resta l'unica forma di comunione possibile”.
Pavese aveva colto di Moby Dick l’aspetto di sacralità di questa opera. Un sacro che riconduce alla Divinità, in una forma misteriosa, celata, tutta da decifrare, e alle sue manifestazioni, che agli occhi dell’uomo possono apparire anche negative, oltre che incomprensibili.
Melville realizzò l’epica della giovane America dell’800, di una nazione ma anche di un tempo, l’800 positivista e scientista, che vuole sfidare le leggi della natura e di Dio, che con la tecnica decide prometeicamente di scalare i cieli. Moby Dick dunque non è un mostro: i mostri veri sono quelli che si agitano nell’animo luciferino di Achab, icona dell’uomo della modernità che rifiuta Dio, come ci svela il finale di questo straordinario libro.