Minacce, alleanze, elezioni: il 2021 in Medio Oriente
Di certo c'è solo la data delle prossime elezioni anticipate in Israele, le quarte in due anni: il 23 marzo. Per il resto il 2021 si presenta già ora come un anno ricco di incognite. Prima di tutto: l'Iran darà seguito alle sue minacce contro gli Usa?
Una sola certezza segna l’inizio del 2021 nel Medio Oriente - nuove elezioni generali il 23 marzo in Israele, le quarte in due anni! - in mezzo a tante incertezze politiche avvertite in tutta l’area per l’eredità che il presidente americano Donald Trump lascia al successore Joe Biden e a quelle di impronta militare, per le preannunciate vendette dell’Iran nei confronti degli Stati Uniti e del suo nemico di sempre Israele (potrebbero addirittura essere prossime). Inquietudini politiche e militari che si sovrappongono all’estesa emergenza sanitaria di lotta al Covid 19, la pandemia dalle bizzarre, ignote e funeste, caratteristiche.
L’imminenza della vendetta iraniana è legata al primo anniversario dell’ uccisione, il 3 gennaio dell’anno scorso, presso l’aeroporto di Baghdad di una personalità eminente del regime iraniano, il generale Qassem Soleimani, attribuita agli Stati Uniti, che rispondevano così, si disse, all’assedio della loro ambasciata a Baghdad da parte di miliziani filo-iraniani. In effetti era stata l’ultima ritorsione (con un missile sparato da un drone Usa) di una serie che ne aveva come responsabili le due parti.
Soleimani, per 22 anni alla guida della “Forza al Quds” delle Guardie Rivoluzionarie dell’Iran, era stato l’ispiratore e artefice dell’ accresciuta influenza del suo Paese in varie nazioni della regione – Siria, Iraq, Libano, Yemen, Striscia di Gaza – grazie alla costituzione o conversione di milizie locali sciite, legate da vincoli di fedeltà a Teheran. Forze combattenti rivelatesi importanti nella riacutizzazione della conflittualità secolare tra musulmani sunniti e sciiti, e i loro regimi; concomitante peraltro con l’intromissione nell’area di altre due potenze, Russia e Turchia.
Non solo, il 20 novembre era stato pure eliminato in un attentato in patria, il fisico Mohsen Fakhrizadeh, padre del programma nucleare militare dell’Iran. Due figure simboliche, esaltate dal regime – in particolare in occasione dei loro solenni funerali – e molto considerate dai suoi sostenitori, incalzati ora dalla scadenza del mandato presidenziale di Donald Trump per dare credibilità alle loro indignate reazioni.
Trump l’8 maggio 2018 non solo aveva ritirato gli Stati Uniti dall’accordo sul controllo internazionale delle attività e degli impianti atomici iraniani (affidato all’ Agenzia atomica dell’Onu e conosciuto con l’acronimo Jcpoa – The Joint Comprehensive Plan of Action – stipulato il 14 luglio 2015 dalla precedente amministrazione Usa insieme con Cina, Russia, Francia, Regno Unito, Germania e Unione Europea), ma aveva pure ripristinato dure sanzioni a Teheran.
Il mese scorso parecchi eventi hanno fatto crescere le tensioni: il 18 dicembre il capo di Stato Maggiore americano Mark Milley si é recato per consultazioni in Israele; due giorni dopo missili iraniani si sono abbattuti su un compound Usa di Baghdad; il 24 dicembre Trump ha detto che avrebbe considerato l’Iran responsabile di qualsiasi attacco a cittadini o soldati americani anche se compiuto da miliziani sciiti; l’indomani Israele ha messo in stato di allerta le sue Forze Armate. D’altra parte i miliziani yemeniti sciiti hanno rafforzato il controllo sullo stretto di Bab el-Mandeb dal quale transitano le navi mercantili provenienti o diretti al canale di Suez. E a Berlino è stato sventato un attentato terroristico programmato per Natale da un giovane siriano, musulmano sciita.
Tante illazioni e ipotesi sono state prefigurate sulla eventualità, possibilità, ampiezza e caratteristiche di un conflitto, in questi primi giorni di gennaio. “Trump è pronto alla guerra” è stato scritto da chi ha dato notizia del rafforzamento della presenza navale Usa nel Golfo Persico con l’arrivo di un sottomarino nucleare e della base aerea di Diego Garcia (Oceano Indiano) da dove si muoverebbero contro l’Iran i bombardieri B-52. D’altra parte sono state date come per scontate delle incursioni iraniane contro impianti petroliferi dell’Arabia Saudita, degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrein. Questi ultimi due paesi del Golfo grazie a Jared Kushner, genero di Trump, hanno di recente stipulato con Israele, in chiave anti-iraniana, la cosiddetta “Pace di Abramo”.
Una svolta storica, anche per il fatto che ha coinvolto due importanti paesi arabi d'Africa, il Sudan e soprattutto il Marocco. E che forse avrebbe potuto coinvolgere ancora altri paesi sunniti, aggravando la spaccatura nel mondo islamico in chiave anti-iraniana, se Trump avesse vinto le elezioni. Mentre incominciano a prefigurarsi incerti sviluppi sulla scena del Medio Oriente con Joe Biden che, si dice, intenderebbe riattivare la politica di Barack Obama, del quale è stato vice-presidente per otto anni, distanziandosi da Israele e riprendendo il dialogo con Teheran, dopo aver revocato le nuove sanzioni.
Con il rischio però di deteriorare rapporti da sempre amichevoli, strategicamente vitali ed economicamente significativi, con paesi arabi importanti (l’Arabia Saudita ha avvertito Biden, attraverso il principe Turki Faisal, ex capo dell’Intelligence, di “non ripetere errori e carenze del passato”). Nello scenario delle incertezze, c’è anche chi ipotizza che Biden possa di nuovo giocare la “carta palestinese”. Per nulla facile però, perché non può prescindere da Israele ed esiste il rischio concreto che non porti, ancora, a nessun accordo.
Eloquente è infatti il retaggio di delusioni lasciate dai palestinesi (e da Yasser Arafat in particolare) ai presidenti americani, sia democratici sia repubblicani, che in passato si sono impegnati a fondo a giocare la “carta palestinese” dopo aver trascurato quella “arabo-israeliana” che era stata segnata dai trattati di pace fra Israele e l’Egitto (1979) e fra Israele e la Giordania (1994).
Sono queste le incertezze che l’avvento di Joe Biden alla Casa Bianca sta ponendo. Incertezze che possono acuire le tensioni, le posizioni, le prospettive non solo generali nell’area, ma anche all’interno di Israele. Si è infatti dissolta l’alleanza tra i due maggiori partiti di centro, il Likud di Benjamin Netanyahu e il Bianco-e Blu di Benny Gantz per la loro incapacità di approvare il bilancio dello Stato entro i rigorosi tempi previsti; e nonostante i tentativi dei leader di salvare la coalizione con il rinnovo degli impegni di alternanza alla guida del governo. Alla verifica della maggioranza si è notato che due parlamentari del primo e tre dell’altro partito erano spariti dalla circolazione. Un paio di voti contro hanno fatto il resto.
In effetti la coalizione è implosa, i deputati ribelli dei due partiti ne hanno voluto la fine forse perché alcuni delusi da Gantz, altri insofferenti di un Netanyahu al potere da undici anni consecutivi. Che dalla consultazione del 23 marzo, secondo i primi sondaggi, potrebbe uscire ridimensionato ad opera di un concorrente uscito dal suo stesso partito, ma alla fine pur sempre vincitore. A Benny Gantz, si dice, andrebbe peggio. Staremo a vedere.