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EDITORIALE

Migrazioni, prima responsabilità è nei paesi d'origine

Gli imperi coloniali sono usciti di scena oltre cinquant’anni fa; è perciò una mancanza di rispetto, e paradossalmente una forma di paternalismo fuori luogo, continuare a dire che tutti i guai attuali degli Stati che furono colonie derivano dal loro passato coloniale.

Editoriali 30_01_2017
Frontiera Usa Messico

Difficile dire se i disagi che sta provocando la sospensione per 90 giorni, decretata dal presidente Trump, dell’ingresso negli Usa di persone provenienti da sette Paesi a maggioranza musulmana siano dovuti a lacune del relativo decreto oppure ad altri motivi. Tanto più considerando che si tratta in fin dei conti di poche persone, si sarebbe potuto lasciare entrare negli Usa coloro che risultavano già in viaggio o comunque già in possesso del visto salvo controllare successivamente  gli eventuali sospetti. Trump avrebbe così evitato di aggiungere altra legna al fuoco delle manifestazioni di protesta che serpeggiano contro di lui.  

All’ombra di polemiche di questo genere va poi a finire che aspetti fondamentali della questione migratoria continuino a restare fuori dal dibattito. In primo luogo il fatto che la massima parte di questi migranti irregolari lascia la terra d’origine per motivi economici, e non per motivi politici.

In secondo luogo che nei confronti di questi migranti per motivi economici la responsabilità dei governi dei Paesi d’origine viene prima di quella dei governi dei Paesi verso cui si dirigono. Gli imperi coloniali sono usciti di scena oltre cinquant’anni fa; è perciò una mancanza di rispetto, e paradossalmente una forma di paternalismo fuori luogo, continuare  a dire che tutti i guai attuali degli Stati che furono colonie derivano dal loro passato coloniale. Dove in un modo o nell’altro un processo di sviluppo è stato avviato la situazione è migliorata; talvolta vistosamente, ma sempre quanto basta per far venire meno l’impulso a esodi temerari frutto della disperazione. Dove questo non è accaduto una  causa principale è la grande corruzione del ceto politico [cfr. Anna Bono, Migrazioni, emergenza del XXI secolo] di cui in Africa la vicenda del Gambia è solo il caso più recente.

Piuttosto che tenere comunque le porte aperte alla migrazione per motivi economici, che peraltro si risolve in una seria perdita di energie per i Paesi d’origine dei migranti, sarebbe soprattutto importante favorire il risanamento delle loro economie e delle loro istituzioni. E’ su questo terreno che Trump andrebbe sfidato invece che sulla pretesa che gli Stati Uniti siano ancora la grande meta d’immigrazione che furono in situazioni storiche e in tempi ormai ben lontani da quelli di oggi; e più in generale sulla pretesa del riconoscimento di un presunto diritto generale di immigrazione dall’emisfero Sud nei Paesi più sviluppati.  

Ciò detto non è irragionevole che un nuovo presidente, eletto tra l’altro anche grazie alla sua promessa di riformare la politica dell’immigrazione, mentre sta elaborando tale sua riforma decida in via cautelare una sospensione temporanea delle più discusse tra le procedure vigenti. E’ di questo infatti che si tratta: di una sospensione per 120 giorni del Programma di ammissione dei rifugiati negli Usa, e per 90 giorni dell’ingresso a qualsiasi titolo nel Paese (salvo il caso dei diplomatici e di personale dell’Onu) di persone provenienti da Iran, Iraq, Libia, Somalia, Sudan e Yemen; infine di una sospensione a tempo indeterminato riguardo ai rifugiati dalla Siria. A parte questo temporaneo provvedimento sarà poi soprattutto interessante vedere i contenuti della riforma alla quale Trump sta lavorando. Se cioè sarà semplicemente una politica delle porte chiuse, impopolare e in pratica impossibile, oppure una politica ispirata a programmi di risanamento come quelli cui accennavamo.

Se per l’Europa il banco di prova di una tale nuova politica sarebbero in primo luogo l’Africa sub-sahariana e il Corno d’Africa, per gli Stati Uniti sono i suoi vicini a sud, ossia il Messico, il Centro America e i Caraibi. Una frontiera terrestre lunga 3140 chilometri, che per lunghi tratti si snoda in aree desertiche, per un verso separa ma per un altro pone in contatto due Paesi, gli Stati Uniti e il Messico, il primo dei quali ha un reddito pro capite pari a oltre cinque volte quello del secondo. Di qui un ingente flusso migratorio irregolare che gli Stati Uniti hanno cercato di fermare con un “muro” (in effetti un’alta recinzione metallica) già molto prima di Trump.

Risale infatti al 2006 l’approvazione da parte del Congresso degli Stati Uniti -- al Senato anche  con il voto favorevole degli allora senatori democratici Barak Obama e Hillary Clinton -- del progetto di un “muro”  lungo 1223 chilometri. Il “muro” insomma c’è già. Il nuovo presidente Trump vuole semplicemente allungarlo e rafforzarlo.  Fa bene o fa male? Soprattutto fa qualcosa che sul piano sia economico che simbolico costa molto di più di quanto serve. Come dicevamo, la vera soluzione di questi problemi va cercata lungo altre strade. Ciò vale però non solo per gli Stati Uniti ma anche per l’Unione Europea.