Migranti in fuga dalle guerre e dalla fame: le due facce di una crisi che l’Europa non vuole affrontare
L’emergenza migranti approda all’Onu, ma l’Europa pare incapace ad affrontarla per quella che è: una crisi planetaria e non solo continentale. Ci si illude di poterla governare localmente con leggi inefficaci e conservando ancora la vecchia distinzione tra profugo e migrante economico.
KENIA, RICACCIATI IN PATRIA MIGLIAIA DI PROFUGHI SOMALI di Anna Bono
Nel quadro dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite in corso a New York dal 13 settembre, la questione delle migrazioni non programmate e dei profughi è stata al centro di un apposito vertice a livello di capi di Stato e di governo. L’incontro era aperto anche a organizzazioni non-governative, esperti della materia e altri rappresentanti qualificati della società civile.
A sua volta, il presidente Obama ha convocato oggi un analogo vertice sul problema specifico dei rifugiati. Obiettivo dell’incontro: giungere a nuovi e più impegnativi accordi sulla questione. I due vertici risultano in realtà un po’ in concorrenza tra loro, anche se diplomaticamente si è preferito dire che sono l’uno complementare dell’altro. Ad ogni modo, il problema è giunto così per la prima volta con il massimo rilievo alla ribalta mondiale. Ciò detto i primi esiti dei lavori non sembrano incoraggianti. Dando il fenomeno per inevitabile ci si sofferma a vedere come governarlo quando invece sarebbe molto più urgente e decisivo, come diremo più avanti, andare alla radice del problema e vedere come lo si possa avviare a soluzione.
L’attenzione suscitata dai due vertici è in ogni caso per l’opinione pubblica europea una buona occasione per scoprire che il fenomeno si riscontra nella più diverse parti del mondo, e non solo nell’area euro-mediterranea. Anche, ad esempio, nel Sudest asiatico in direzione della Malesia e di Singapore oppure, seppur in più piccoli numeri, attraverso il Sinai e il Mar Rosso dal Corno d’Africa verso Israele. Paragonabile per dimensioni a quello che attraverso il Mediterraneo punta verso il Nord Europa è invece il flusso di latinoamericani di varie nazionalità, non solo di messicani, che attraversano il Messico diretti verso la frontiera con gli Stati Uniti.
Quello che in Europa viene visto e vissuto come un problema europeo, infatti, è piuttosto il caso europeo di un fenomeno molto più vasto. Senza coglierne le vere dimensioni, che sono non inter-continentali bensì planetarie, diventa perciò impossibile affrontarlo adeguatamente. Il caso della Germania, dove il governo presieduto da Angela Merkel viene ora messo in difficoltà dal crescere dell’ostilità popolare contro l’afflusso massiccio di questi nuovi migranti, dimostra che nemmeno un grande Paese industriale molto ben organizzato è in grado di assorbire indefinitamente flussi migratori non programmati di questo genere.
Ha poi poco senso pure la pretesa del premier Renzi, proclamata ieri a New York, che l’Italia in materia possa fare da sola. Renzi aveva avuto ragione a dire che per fermare questi flussi occorre investire nello sviluppo dei Paesi d’origine dei migranti. Che si impegni piuttosto a convincere in proposito l’Unione Europea, fermo restando che lo sviluppo lo fanno le imprese, e non i governi, tanto più laddove, come nell’emisfero Sud, sono piagati da una diffusa corruzione (su questo tema, vedi il libro di Anna Bono, Migrazioni, emergenza del XXI, nella collana de i Libri della Bussola clicca qui).
Se, infatti, si pone il problema nelle sue vere dimensioni non si tarda ad accorgersi che le guerre, i conflitti civili e altri analoghi perturbamenti sono la causa immediata degli attuali esodi, ma in ultima analisi non ne costituiscono la causa profonda. Questa è il frutto dal combinarsi di due elementi: da un lato il gigantesco divario in termini di sviluppo, quindi di reddito e di tutela dei diritti umani e della salute, che si è aperto tra i Paesi più ricchi e quelli più poveri; dall’altro la pan-comunicazione a costi irrisori offerta da Internet, grazie alla quale tale divario è noto a tutti fino nei più remoti angoli della Terra.
Nel mondo in cui viviamo, ovunque si riesca ad accedere a Internet, cioè fino nei più remoti villaggi e nelle più desolate periferie -- tanto più se non si ha alcuna esperienza diretta o notizia effettiva delle condizioni del mercato del lavoro nelle economie avanzate nonché della formazione e dei requisiti professionali che occorrono per accedervi in modo soddisfacente -- l’idea che ci si fa dell’emisfero Nord è quella veicolata dai messaggi pubblicitari e dalle trasmissioni di intrattenimento. Ovvero che si tratti di un grande Paese della Cuccagna: un mondo dove c’è di tutto in abbondanza, dove tutto costa poco o nulla, e dove comunque tutto è a disposizione di tutti.
Facciamo, ad esempio, il caso di due Paesi per certi versi analoghi essendo entrambi montani e senza sbocco sul mare: la Svizzera e il Nepal. In quanto a reddito pro capite a parità di potere d’acquisto il reddito annuo in Svizzera è pari a 58087 dollari all’anno; nel Nepal invece è pari a 2376 dollari. In altre parole, uno svizzero è in media quasi 24,5 volte più ricco di un nepalese. A un tale divario corrisponde una differenza in quanto non solo a reddito personale, ma anche a qualità dei servizi, e quindi a sicurezza della vita, che è così forte da far in pratica svanire la diversità tra profugo e migrante economico. Rispetto all’essere svizzero l’essere nepalese è rischioso fino al punto che 99 nepalesi su 100 avrebbero ottime ragioni per venire accolti in Svizzera come rifugiati.
Caduta la diversità tra profugo e migrante, cade però l’intera legislazione nazionale e internazionale in materia, in forza di cui il profugo (se riconosciuto come rifugiato) ha diritto all’accoglienza, mentre per il migrante economico l’accoglienza non è un diritto bensì un’eventuale concessione. In Paesi, poi, in cui non sono garantite a chiunque né l’istruzione scolastica tanto più se superiore, né l’assistenza sanitaria, già il solo fatto di riuscire a giungere là dove l’una e l’altra sono sicure giustifica sacrifici e rischi personali che sembrano inaccettabili e incomprensibili a noi, ma non a chi si trova in tale situazione. Ciò spiega, ad esempio, il dramma nel dramma dell’esodo dall’Africa sub-sahariana e dal Corno d’Africa attraverso il Mediterraneo verso l’Europa di minori non accompagnati e di donne incinte.
In questo quadro, le guerre e i conflitti interni non sono in genere la causa prima dell’esodo quanto piuttosto l’emergenza immediata che fa per così dire da detonatore a un desiderio già da tempo consolidato nella persona o comunque nella sua famiglia. Spesso, infatti, i migranti sono giovani istruiti e in buona salute su cui l’intera famiglia investe pagando le spese dell’esodo con l’intesa che poi, una volta giunti alla meta del loro viaggio, si daranno da fare per mandare aiuti in Patria ai familiari che hanno finanziato il viaggio con i loro risparmi.
Il fenomeno si risolve in un generale spreco di risorse sia nei Paesi di partenza che nei Paesi di arrivo di questi flussi. Nei Paesi di partenza perché sottrae risorse umane e risorse economiche che molto più fruttuosamente si sarebbero potute investire sul posto. Nei Paesi di arrivo perché la gestione di questi flussi di migranti “non programmati” costa molto in ogni sua fase da quella della prima accoglienza a quella della tentata integrazione, oltre a caricare il sistema sanitario dell’onere dell’assistenza a persone che per definizione non hanno contributo a finanziarlo con il loro lavoro e con le loro imposte.
Ha poi negative conseguenze politico-sociali da un lato perché non essendo legale non può che venire gestito a cura e vantaggio di organizzazioni tendenzialmente criminali; dall’altro perché non essendo regolato provoca reazioni anche in sé giustificate ma poi spesso scomposte nei Paesi di arrivo, e specialmente negli strati più poveri della popolazione autoctona, con cui i migranti entrano in più diretta concorrenza.
Senza pregiudizio per l’utilità di politiche immediate di contenimento e di mitigazione delle conseguenze negative del fenomeno, la via maestra per venirne fuori è quella di puntare con adeguati investimenti in risorse sia umane che materiali verso lo sviluppo dei Paesi di origine di questi flussi migratori. Tutto ciò facendo nel frattempo una politica di pacificazione e non di esacerbazione dei conflitti. É un’opera ardua? Certamente, ma non c’è altra alternativa.
Robi Ronza