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KIRIBATI

Migranti climatici in fuga dal disastro che non c'è

Il signor Ioane Teitiota chiede asilo alla Nuova Zelanda, in fuga dal suo paese, Kiribati, che in caso di riscaldamento globale sarà sommerso dalle acque del Pacifico. Ma la catastrofe non c'è e i neozelandesi non concedono lo status di "rifugiato climatico".

Creato 18_10_2015
I coniugi Teitiota

Una anziana contadina delle Langhe piemontesi, intervistata qualche anno fa nel corso di un programma televisivo sul global warming, il riscaldamento globale, alla domanda su come avrebbe affrontato la catastrofe di un clima divenuto tropicale rispondeva: “vedremo, adesso coltiviamo nocciole, ci sarà pure qualcosa che cresce bene anche al caldo, magari le arachidi, qualcosa faremo”.

Si capisce che alla signora delle Langhe non verrebbe mai in mente di emigrare, se anche il clima delle Langhe diventasse torrido, nè tanto meno di chiedere asilo all’estero reclamando lo status di “rifugiato ambientale”.

Non così Ioane Teitiota, un cittadino di Kiribati, emigrato nel 2007 in Nuova Zelanda e che, allo scadere del permesso di soggiorno nel 2010, ha pensato bene di presentare richiesta di asilo al governo neozelandese, rivendicando il diritto allo status di “rifugiato per cambiamento climatico” per via dei gravi pericoli in cui sarebbe incorso, a suo dire, se costretto a rientrare in patria. 

Michael Kidd, il suo avvocato, ha sostenuto di appello in appello che, non concedendogli asilo, la Nuova Zelanda avrebbe condannato lui e la sua famiglia a ritrovarsi in una situazione molto pericolosa. “Ne patirebbero soprattutto i suoi tre bambini – sosteneva – che si ammalerebbero senz’altro a Kiribati perchè non sono abituati all’acqua inquinata”. Ma l’argomento decisivo, secondo il legale, era il fatto che a Kiribati la famiglia Teitiota sarebbe stata in pericolo a causa dell’innalzamento del livello dei mari provocato dal global warming. 

Kiribati è un piccolo stato composto da tre arcipelaghi dell’Oceano Pacifico. Ad eccezione di una, Banaba, tutte le isole Kiribati sono atolli che affiorano di poco sopra il livello del mare. L’innalzamento del livello degli oceani in effetti le sommergerebbe: comunque, non prima della fine del secolo, dicono le proiezioni. 

Intanto la vita continua a Kiribati, gli atolli ancora emergono dalle acque, peraltro il global warming non è neanche un fenomeno scientificamente dimostrato. In considerazione di ciò, confidando che la famiglia Teitiota possa tornare a casa e vivere sicura e in dignità, tutti i giudici chiamati nel corso degli anni a pronunciarsi in merito alla richiesta di asilo hanno rifiutato di accoglierla. La sentenza definitiva di espulsione è stata emessa il 22 settembre di quest’anno e il giorno successivo Teitiota è stato imbarcato su un volo diretto a Kiribati. In conformità con la convenzione internazionale sui rifugiati, il tribunale che per ultimo ha esaminato il caso ha dichiarato: “senza dubbio Kiribati sta affrontando dei problemi, ma il signor Teitiota, se fa ritorno in patria, non corre ‘seri pericoli’ e nulla prova che il governo di Kiribati non stia intraprendendo, nei limiti del possibile, tutti i passi necessari a proteggere i propri connazionali dagli effetti del degrado ambientale”. 

Da parte sua il primo ministro neozelandese, richiesto di concedere almeno una proroga, ha rifiutato dicendo di non considerare Teitiota un “rifugiato ambientale” bensì una persona rimasta illegamente nel paese dopo la scadenza del suo permesso di soggiorno. 

L’espressione “rifugiato ambientale” neanche esisteva fino a pochi anni fa. Gli ambientalisti e i sostenitori del dovere universale di accoglienza agli emigranti dapprima hanno introdotto il concetto di “migrante ambientale” e adesso propongono di estendere lo status giuridico di rifugiato a chi, in difficoltà a causa di fenomeni climatici avversi, siano essi naturali o provocati dall’uomo, decida di espatriare: uno status che si ritiene dovuto anche nel caso di fenomeni rimediabili o che addirittura si devono ancora verificare e forse non accadranno mai, come nel caso di Kiribati. 

Il rimpatrio di Teitiota decreta l’insuccesso del primo tentativo mai effettuato di ottenere lo status di rifugiato per motivi ambientali. L’errore è stato provarci in Nuova Zelanda. Magari oggi Teitiota e la sua famiglia sarebbero i primi rifugiati ambientali se avessero presentato richiesta, ad esempio, in Italia dove il diritto di asilo per motivi climatici è ben visto. A un convegno svoltosi presso Expo Milano 2015, il responsabile immigrazione di Caritas Italia Oliviero Forti deplorava proprio la discriminazione di cui sono oggetto le vittime di disastri ambientali e climatici ai quali lo status di rifugiato non è riconosciuto. “Che ne sarà degli abitanti di alcune piccole isole del Pacifico nel prossimo futuro? – si domandava a sua volta Laurens Jolles, delegato per l’Europa meridionale dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati – Sempre più nel futuro vedremo persone costrette a fuggire per motivi ambientali. Purtroppo, oggi, a questo problema non sappiamo ancora dare una risposta”. 

La previsione di un aumento delle persone in fuga per motivi ambientali è da dimostrare. In ogni caso, la storia di Teitiota ha un lieto fine, a quanto pare. L’ex presidente di Timor Est, Jose Ramos-Horta, ora rappresentante speciale dell’ONU in Guinea Bissau, scandalizzato dal “comportamento spietato della Nuova Zelanda che ha deportato un rifugiato per cambiamenti climatici”, ha offerto casa e lavoro a Teitiota: “Sono felice di dare il benvenuto nel mio paese – si legge sulla sua pagina Facebook – al primo rifugiato ambientale e alla sua famiglia. Pagherò il suo biglietto aereo per Timor Est e potrà vivere a casa mia finchè non avrà un lavoro e una casa”.