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PARLA ENNIO MORRICONE

«Mi manca il gregoriano, che errore fu abbandonarlo»

La sua musica “mistica e sacrale”  e il rammarico per la scomparsa del gregoriano dalle chiese. Il gusto di cimentarsi tra note e spartiti non dà tregua a Ennio Morricone, nemmeno ora che è giunto alla soglia degli 88 anni. In occasione dell’uscita dell’autobiografia, il sito zenit.org lo ha intervistato. 

Cinema e tv 11_08_2016
Ennio Morricone

«Non posso fare a meno di scrivere, si tratta di un rituale su cui ogni giorno sento l’esigenza di tornare con dedizione e passione». Il gusto di cimentarsi tra note e spartiti non dà tregua a Ennio Morricone, nemmeno ora che il celebre compositore romano è giunto alla soglia degli 88 anni. Non lo appagano il prestigioso curriculum – oltre 400 colonne sonore all’attivo e più di 50 milioni di dischi venduti – e i premi più o meno conosciuti che gli vengono tributati costantemente, in Italia e all’estero.

Quello di Ennio Morricone con la musica è un rapporto inscindibile. È come un filo recondito, che percorre l’anima del compositore e, servendosi del suo talento unico, dà costantemente vita a dei capolavori in grado di emozionare. Risuonano nelle orecchie di moltitudini di persone, d’ogni latitudine e generazione, le note di alcune tra le sue più famose colonne sonore. Entrano dai padiglioni auricolari e penetrano nel profondo del cuore umano. In occasione dell’uscita di Inseguendo un sogno. La mia musica, la mia vita, autobiografia in forma di dialogo scritta insieme al giovane compositore Alessandro De Rosa, il sito on line zenit.org ha intervistato Ennio Morricone. Il Maestro parla della sua brillante carriera, della storia della musica – anche di quella liturgica – nonché dell’aspetto “mistico e sacrale” che si cela dietro le sue composizioni.

Maestro, ha iniziato la sua carriera come trombettista in varie orchestre romane. Quanto è stata importante nella sua formazione quell’esperienza? Che ricordi serba della Roma di quegli anni?

«Entrai in alcune orchestre già prima di diplomarmi in Composizione, e addirittura prima del diploma in Tromba che conseguii nel ’46. Iniziai durante il periodo della seconda guerra mondiale, quando affiancavo mio padre Mario, trombettista anche lui, prima di me, in un’orchestrina. Si suonava prima per i soldati tedeschi, poi per quelli americani. Erano anni difficili, dove mancava tutto. Furono esperienze importanti, anche più tardi, quando cominciai a suonare nelle orchestre di sincronizzazione. Fu un po’ l’inizio. Gradualmente incominciai anche ad arrangiare dei brani e poi, a scriverne di miei».

Ce n’è una, tra le tante colonne sonore che ha firmato, a cui è particolarmente legato?

«Questa è una domanda che mi è stata posta numerose volte. Mi è impossibile rispondere se non dicendo che ogni film che ho fatto è stato per me importante. Le musiche che ho scritto sono come dei figli che amo allo stesso modo. Alcuni film da me musicati sono diventati famosissimi e sono conosciuti da tutti, altri meno, forse quelli più sperimentali, che purtroppo, per varie ragioni, non hanno ottenuto il consenso che meritavano. In particolare fra questi ultimi ricordo Un uomo a metà di Vittorio de Seta e Un tranquillo posto di campagna di Elio Petri.

È cambiato tanto negli anni il modo di comporre musica per un film? Quanto ha inciso l’elettronica?

«È cambiato moltissimo. L’utilizzazione di sintetizzatori e dell’elettronica ha modificato molti sistemi produttivi e di consumo della musica. Talvolta questi cambiamenti hanno permesso ad alcuni dilettanti di realizzare musiche che in passato avrebbero richiesto uno studio molto più attento e completo della composizione. Insomma, si sono generati fenomeni buoni e meno buoni. Per me l’elettronica è molto interessante, sin dai suoi albori, ma credo che il progresso e i timbri elettronici si debbano compenetrare alla musica acustica».

Le note di molte delle sue memorabili colonne sonore – penso a Gabriel’s Oboe di Mission o a Deborah’s Theme di C’era una volta in America – favoriscono la contemplazione. È lecito ritenere che ci sia come un filo rosso sacrale che passa attraverso la sua musica?

«Questa domanda mi suscita un ricordo. Negli Anni ‘70 Luciano Salce (per il quale Morricone ha firmato le musiche per Il Federale, ndr), mi disse che ero un compositore mistico e sacrale. Su due piedi io non mi trovai d’accordo con lui. Poi, negli anni successivi, pensai a tanti miei lavori, vecchi e nuovi, ai western con Sergio Leone, a The Mission, ma anche alla mistica del male rappresentata dai film di Dario Argento… Beh, ad essere franco quella considerazione di Salce è stata ed è ancora per me fonte di riflessione».

Che tipo di riflessione? C’è forse un’ispirazione religiosa dietro alle sue composizioni?

«Forse qualcosa di religioso c’è, nell’approccio che ho con la composizione. È un approccio segnato da un profondo rispetto per un’attività per me fondamentale. Non posso fare a meno di scrivere, si tratta di un rituale su cui ogni giorno sento l’esigenza di tornare con dedizione e passione».

Ha composto e poi diretto, un anno fa, la Missa Papae Francisci. Com’è nato questo progetto?

«Io non avevo mai scritto una Messa prima di questa. Una mattina, nel dicembre 2012, incontrai un prete gesuita che conosco, padre Libanori, a Piazza del Gesù, a Roma, dove mi stavo recando a comprare i giornali. Lui mi disse che presto sarebbero ricorsi i duecento anni della Compagnia del Gesù e mi propose di scrivere una Messa per questo avvenimento. Alla sua domanda risposi che avrei provato, ma che avrei accettato solo nel momento in cui l’avrei completata. Non ero, infatti, sicuro di portarla a compimento. Poi durante i mesi in cui la componevo, ci fu l’avvicendamento del nuovo Pontefice, papa Francesco, il primo Papa gesuita della storia, la dedica a lui venne spontanea. In Vaticano poi ebbi modo di incontrarlo e mostrargli la partitura».

Dopo aver scritto questa Messa, Le piacerebbe musicare un’altra pagina sacra?

«Certo. Ma devo riconoscere che è strano, perché più che attendere il piacere di musicare qualcosa, solitamente io mi ci imbatto. Magari si tratta di un testo che colpisce la mia attenzione. Se da lì mi vengono sufficienti idee, continuo».

Quanto è stato importante nella storia della musica il canto gregoriano?

«Nella musica occidentale fu essenziale. L’anno zero. Se non si fosse partiti da lì, non sarebbe potuta probabilmente svilupparsi la polifonia, il contrappunto, l’armonia, le prime forme musicali “sacre”, il mottetto e via dicendo… Il canto gregoriano si lega alla storia della nostra cultura europea e ne costituisce importanti radici musicali».

Quindi Le dispiace che la tradizione del gregoriano si sia un po’ persa nella Chiesa?

«Dopo il Concilio Vaticano II, la mia attenzione si soffermò sul cambiamento che subì la musica in seguito a quell’evento. Ebbene, mi dispiacque moltissimo quando si decise di staccarsi dalla tradizione musicale che proveniva dal passato della Chiesa. Forse si cercò di andare incontro ai gusti dominanti, proponendo stili musicali più popolari, e vicini alle tendenze della musica popolare di oggi. Mi sembrò si stesse minando un’identità musicale importante e millenaria».