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L’addio al Barça

Messi e il calcio, chi è causa del suo mal…

La Pulce piange nella conferenza stampa di commiato dal Barcellona. Troppo elevato l’ingaggio per il tetto salariale della Liga. Ma con una riduzione più drastica del 50% del suo stipendio monstre, Messi sarebbe potuto rimanere in un club che gli ha dato tanto ed essere d’esempio. Invece va verso il Psg, ‘modello’ di un calcio sempre più insostenibile, idolatrico e senza regole.

Sport 09_08_2021

Le lacrime di Leo Messi alla conferenza stampa di addio al Barcellona hanno fatto il giro del mondo. Sono lacrime che dopo una storia lunga 21 anni, iniziata quando ne aveva appena 13, appaiono comprensibili e, nei loro limiti, sincere. Ma ci si può chiedere: sarebbe finita così se Messi avesse optato per una drastica riduzione dell’ingaggio?

Intanto, bisogna capire quali fossero le rispettive volontà. Dalle dichiarazioni di entrambe le parti, il giocatore e il Barça, sembra proprio che si siano lasciati bene. La Pulce ha voluto chiarire che non si tratta di un addio: «Questo è un arrivederci, l’ho promesso anche ai miei figli». E il presidente Joan Laporta, in settimana, dopo la fumata nera, aveva detto che «Leo voleva rimanere al Barça e noi abbiamo fatto di tutto per trattenerlo, ma non è stato possibile». Per superare le difficoltà finanziarie, si era pensato prima a un rinnovo biennale con i costi da spalmare su cinque anni, poi a un contratto quinquennale. «Messi ci ha reso tutto facile, era molto disponibile. I numeri ci facevano pensare che la Lega avrebbe accettato l’accordo, in altri Paesi ci avrebbero dato l’ok, ma qui non è stato possibile», aveva spiegato Laporta.

Per farla breve, il presidente blaugrana, oltre a denunciare la «nefasta eredità dalla gestione precedente» (Bartomeu), scarica la colpa del mancato accordo sul presidente della Liga, Javier Tebas. Il comunicato del Barcellona di giovedì 5 agosto riferiva infatti dell’impossibilità di trattenere il campione argentino «a causa di ostacoli finanziari e strutturali (regolamento Liga spagnola)». Il regolamento in questione stabilisce un tetto salariale, altrimenti detto «limite di costo della rosa sportiva», fissato sulla base di diversi parametri (compensi fissi e variabili, retribuzioni per cessione dei diritti d’immagine, ammortamenti sui ‘cartellini’ dei calciatori, quote di previdenza sociale, indennizzi alla fine dei rapporti lavorativi, ecc.) e che per la società catalana - relativamente alla sessione di mercato invernale 2021, come riferisce Calcio Finanza - ammonta a 347 milioni di euro. Una cifra sì enorme, ma quasi dimezzata dalle conseguenze del Covid-19 (nell’ultima sessione di mercato prima della pandemia si attestava a 656 milioni) che hanno esacerbato la crisi del calcio.

Il rinnovo di Messi avrebbe sforato il tetto salariale, come ha detto Laporta: «Il monte salari a livello sportivo, con il rinnovo di Messi, avrebbe rappresentato il 110% delle entrate del club, senza rinnovo è invece intorno al 95%». L’ormai ex numero 10 blaugrana era reduce da un contratto che prevedeva fino a 138 milioni di euro l’anno, tra parte fissa e possibili bonus. Per il rinnovo «avevo abbassato del 50% il mio stipendio, ma questo non era sufficiente», ha spiegato Leo, aggiungendo in conferenza stampa che «ho letto che il Barcellona mi avrebbe chiesto di tagliarmi lo stipendio di un altro 30%, ma questa non è la verità. Si dicono tante cose che non sono vere purtroppo».

Stando così le cose, senza escludere un concorso di altri fattori, torniamo alla domanda di partenza: al di là di ciò che gli ha chiesto il club, se il problema era prevalentemente economico, perché Messi non avrebbe potuto risolverlo con una sua scelta più ‘drastica’? Il Barcellona deve tanto a Messi, con il quale ha avviato un ciclo straordinario - grazie ovviamente anche ad altri fuoriclasse (vogliamo ricordarne due su tutti: Xavi e Iniesta) -, il più vincente nella storia del club. E sicuramente Messi deve tanto al Barcellona, che fiutò il campione quando era ancora un bambino in Argentina e si offrì di pagargli le cure necessarie per sopperire alla carenza dell’“ormone della crescita” (la somatotropina) in cambio del suo trasferimento in Catalogna. Certamente Leo, come una moltitudine di altri piccoli calciatori in erba, non pensava di diventare miliardario quando iniziò a tirare calci a una palla e oggi non sarebbe morto di fame con un contratto meno marziano.

Se avesse voluto restare, davvero, al Barcellona si sarebbe potuto accontentare di una cifra che comunque i comuni mortali si sognano - mettiamo un milione di euro? - e la cosa sarebbe andata in porto. E il buon Leo sarebbe stato d’esempio per l’intero settore. Le sue lacrime possono allora esprimere un vero dispiacere, ma si mescolano a un’avidità di fondo, acquisita, senza cui sarebbe stato salvo il tetto salariale. Che è quasi al limite anche senza Messi, perché evidentemente ci sono diversi stipendi monstre.

Questo per ricordare l’ovvio, cioè che la questione non riguarda solo Lionel o solo il Barcellona, ma tutto un sistema calcistico che rischia di collassare, da un lato, per le pretese di calciatori, procuratori, tecnici e, dall’altro, per uno smodato desiderio di prestigio - in definitiva idolatrico - che spinge i presidenti e i Cda dei club ad assecondare spese contrarie ad ogni basilare principio economico (e morale). Il problema si può definire banalmente: mancanza di normalità.

La “normalità” (una rinuncia economica più netta) che è mancata nel rinnovo di Messi è uno spaccato di quello stesso problema che ha indotto il Barça e altri 11 top club europei a inventarsi l’idea, poi abortita, della Superlega. La Superlega nasceva perché le spese erano, sono, ormai insostenibili: se le spese eccessive non vengono tagliate, è chiaro che i club hanno bisogno di ulteriori ricavi per fronteggiarle. Il caso Messi ci ricorda che nel frattempo non si è voluto imparare nulla.

È ormai probabile che la stella di Rosario finisca al Paris Saint Germain, con un accordo pari a 35-40 milioni di euro l’anno. Si tratterebbe dell’ennesimo colpo, a parametro zero (Hakimi a parte), di questa campagna d’estate per il Psg, altro club reduce dal fallimento della Superlega e che pure avrebbe esso stesso un problema con il monte ingaggi. Con Messi, è stato calcolato, supererebbe i 400 milioni di euro lordi, ben oltre il tetto consentito dal relativo organo di controllo francese. Al rispetto delle norme e alla parità di condizioni nei campionati nazionali devono pensare certamente le singole federazioni e leghe: ma se un organo nazionale applica una norma (come in Spagna) e un altro no (come pare in Francia, anche se giungono voci di protesta), come la mettiamo con la parità di condizioni a livello di competizioni europee?

Ci sarebbe il fair play finanziario, ma proprio il Psg - da anni controllato da un ricco fondo sovrano del Qatar, il Paese che ospiterà i Mondiali 2022 - è stato tra quei club che meglio sono riusciti a eluderne le regole. Se si riscontreranno parametri fuori norma, l’Uefa lo applicherà, l’FPF, per una volta, in modo uniforme o continuerà ad accettare nuove difformità che alla fine contribuiscono a nuove esasperazioni come la Superlega?