Mercoledì una speciale giornata mondiale di preghiera per Asia Bibi
Un grande gesto di carità per la donna cristiana rinchiusa nel braccio delle morte della prigione
di Sheikhupura, in Pakistan, per un'assurda legge contro la "blasfemia". In Italia il cardinal Jean Louis Tauran celebrerà una Messa nella cappella del parlamento. I legali di Asia invitano a non arrendersi.
Mercoledì, 20 aprile, il mondo intero pregherà per la salvezza di Asia Bibi. Lo potrà fare chiunque, ovunque, anche accendendo una candela sul davanzale della propria finestra oppure un lume virtuale sui social network. Lo faranno vescovi, arcivescovi, cardinali, parroci, semplici fedeli, monasteri di clausura che si sono organizzati per tempo e persino uomini politici. Particolari intenzioni di preghiera possono del resto essere inviate a specialprayerday@gmail.com
Per volontà della Fondazione Masihi - che si occupa dell’assistenza legale ad Asia e del supporto materiale alla sua famiglia - mercoledì in Pakistan si celebrerà infatti una “Speciale Giornata di preghiera per Asia Bibi, e per le vittime della legge sulla blasfemia”. All’iniziativa, rilanciata dall’Agenzia Fides, ha aderito subito mons. Andrew Francis, vescovo di Multan e presidente della Commissione per il Dialogo Interreligioso nella Conferenza Episcopale del Pakistan, il presule da cui è partita l’iniziativa di chiedere a Papa Benedetto XVi la proclamazione di Shahbaz Bhatti (1968-2011) - il ministro cristiano per le Minoranze religiose assassinato in Pakistan il 2 marzo a motivo della sua fede e del suo impegno civile - «martire e patrono della libertà religiosa». A lui si unirà, in Italia, il cardinal Jean Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, celebrando nella cappella del nostro parlamento una Messa organizzata dall’Associazione Parlamentari Amici del Pakistan e dall’Associazione Pakistani Cristiani in Italia.
Asia Bibi langue in carcere in Pakistan, il suo Paese, dal 2009. Asia Bibi è cristiana, e nel suo Paese già questo è un reato. In Pakistan, nel suo Paese, Asia Bibi attende in carcere l’esecuzione della sentenza capitale a cui è stata condannata per “blasfemia”. Perché nel suo Paese, il Pakistan, vige una “legge contro la bestemmia” che serve per colpire arbitrariamente e severamente tutti coloro che in un modo qualsiasi vengano ritenuti “nemici” dell’islam.
Un giorno del giugno 2009 Asia lavorava come ogni altro giorno alla fattoria del villaggio di Ittan Wali, nel distretto di Sheikhupura, in quel Punjab i cui governatori vengono ammazzati dalle proprie guardie del corpo poiché non fanatici pur se musulmani come Salmaan Taseer (1944-2011).
Ad Asia fu chiesto di andare alla fonte a prcurar dell’acqua, ma poi alcune delle sue colleghe musulmane si rifiutarono di bere dal recipiente toccato dalle sue mani cristiane e “impure”. Siamo nel Pakistan dei mille fondamentalismi islamici, non dimentichiamolo, un Paese il cui nome in lingua urdu significa “terra dei puri”. Qualcuno pensò poi di arricchire il racconto inventandosi che, nell’alterco seguitone, la donna avesse proferito commenti pesanti sul profeta Maometto. Ne scoppiò una rissa, e Asia e i suoi familiari vennero assaliti e picchiati da una plebaglia incarognita. Non fosse stato per la polizia, la famosa pena capitale che pende oggi sul capo della donna avrebbe già avuto, sommariamente, ragione di lei in quei torridi giorni pakistani di due anni fa. Scampò. E però la polizia di uno Stato così, di uno Stato come il Pakistan in cui l’islam è protetto da una “fantasiosa” legge “contro la blasfemia” che serve solo a colpire i “nemici di fede”, non molla. L’inchiesta seguita ai fatti di Ittan Wali rovesciò la situazione, spedendo Asia in prigione. Fu carcere preventivo, duro, per un anno. Alla fine, nel novembre 2010, il giudice Muhammed Naveed Iqbal del tribunale di Sheikhupura chiuse il caso condannando Asia alla morte per impiccagione. Più una multa si 1.100 dollari.
Là, nel braccio delle morte della prigione di Sheikhupura, la vittima di questa storia assurda dovrebbe oggi avere 40 anni, nella “terra dei puri” l’anagrafe è quel che è. Il suo nome vero è Asia (o Assiya) Noreen, sposata ad Aashiq Fauji Masih, 51 anni, suo devoto consorte e irriducibile difensore. La consociamo tutti come Asia Bibi e la cosa sa di bella favola orientale, di principesse e di altri modi. “Bibi”, infatti, è un titolo di rispetto che si usa accompagnare al nome delle giovani donne e in urdu significa qualcosa che potremmo rendere con “damigella”. Ironico per un Paese intriso di quell’islam che impone alle donne di nascondersi persino alla vista. Dama Asia, bella e innocente, deve pagare con la vita la sua fede. Se la sentenza di morte verrà eseguita, Asia sarà la prima vittima della famigerata legge sulla “blasfemia”.
Asia in carcere sta male, da settimane. Frustrazioni, angherie, violenze le prostrano il fisico da tempo. In Quaresima digiuna, pensano a Gesù e al Papa; le fa bene allo spirito, ma non al corpo. Ha preso pure la varicella.
Haroon Masih, presidente della Fondazione Masihi a Londra, non asconde la preoccupazione. Gli domando se si fa bene a parlare di lei, del suo caso, della sua triste sorte, magari pure a scriverne. «Sì», risponde, aggiungendo di fare «per favore di più, di non fermarsi». Gli ricordo però che alla fine dell’anno scorso il vescovo di Lahore, mons. Lawrence John Saldanha (ritiratosi dal ministero il 7 aprile) chiese toni bassi e passi indietro per non compromettere la sorte di Asia. «Fece bene», dice Masih, «Su un vescovo come lui pesa la responsabilità per i fedeli. Ma noi a distanza possiamo permetterci altro. Asia ha bisogno di noi. Lo scriva: non arrendiamoci!...”.
Mercoledì, in piena Settimana Santa, tutti possiamo essere vicini a damigella Asia, che sa della speciale giornata di preghiera indetta per lei, e che ne è felicissima.