Mattia Pascal e i "lanternini" dell'uomo spaesato
Ne Il fu Mattia Pascal più volte si riflette sull’uomo, sulla sua diversità dalle bestie, sull’esistenza dell’anima, sulla differenza tra antichità e modernità, sull’avvento del relativismo nel clima culturale contemporaneo. Pirandello evidenzia la difficoltà dell’uomo ad arrivare a cogliere la realtà e, quindi, la verità.
Ne Il fu Mattia Pascal più volte si riflette sull’uomo, sulla sua diversità dalle bestie, sull’esistenza dell’anima, sulla differenza tra antichità e modernità, sull’avvento del relativismo nel clima culturale contemporaneo.
Assunta la nuova identità di Adriano Meis, Mattia Pascal ha affittato una camera presso Anselmo Paleari. In un monologo interessantissimo il logorroico Paleari declama: «La Natura ha faticato migliaja, migliaja e migliaja di secoli per salire questi cinque gradini, dal verme all’uomo; s’è dovuta evolvere, è vero? questa materia per raggiungere come forma e come sostanza questo quinto gradino, per diventare questa bestia che ruba, questa bestia che uccide, questa bestia bugiarda, ma che pure è capace di scrivere la Divina Commedia […] e di sacrificarsi come ha fatto sua madre e mia madre; e tutt’a un tratto, pàffete, torna zero? C’è logica? Ma diventerà verme il mio naso, il mio piede, non l’anima mia, per bacco!».
Importante è notare che Adriano Meis trova obiezioni al discorso, che Anselmo Paleari puntualmente confuta. Adriano, infatti, chiede dove sia l’anima una volta che un uomo cada, pesti la testa e divenga scemo. Anselmo replica: «Lei vorrebbe provare con questo che, fiaccandosi il corpo, si raffievolisce anche l’anima, per dimostrar così che l’estinzione dell’uno importi l’estinzione dell’altra? Ma scusi! Immagini un po’ il caso contrario: di corpi estremamente estenuati in cui pur brilla potentissima la luce dell’anima: Giacomo Leopardi! e tanti vecchi, come per esempio Sua Santità Leone XIII! […] Ma immagini un pianoforte e un sonatore: a un certo punto, sonando, il pianoforte si scorda; un tasto non batte più; due, tre corde si spezzano; ebbene, sfido! con uno strumento così ridotto, il sonatore, per forza, pur essendo bravissimo, dovrà sonar male. E se il pianoforte poi tace, non esiste più neanche il sonatore?».
Le argomentazioni del Paleari sono più persuasive rispetto a quelle del Meis: «Non vorrà dir nulla per lei che tutta l’umanità, tutta, dacché se ne ha notizia, ha sempre avuto l’aspirazione a un’altra vita, di là? È un fatto, questo, un fatto, una prova reale». Anselmo Paleari interpreta qui la religiosità di ogni tempo: «Sento che non può finire così!». Attacca, quindi, quanti distinguono l’umanità dal singolo uomo affermando che la prima continuerà a sopravvivere mentre l’individuo perisce: «Altro è l’uomo singolo, dicono, altro è l’umanità. L’individuo finisce, la specie continua la sua evoluzione. Bel modo di ragionare, codesto! […] Come se l’umanità non fossi io, non fosse lei e, a uno a uno, tutti. E non abbiamo ciascuno lo stesso sentimento, che sarebbe cioè la cosa più assurda e più atroce, se tutto dovesse consister qui, in questo miserabile soffio che è la nostra vita terrena: cinquanta, sessant’anni di noja, di miserie, di fatiche: perché? per niente! per l’umanità?».
Nel capitolo XII Pirandello si sofferma, poi, sul dubbio che caratterizza l’uomo contemporaneo, sulla perdita dell’orizzonte ultimo della trascendenza, sulla differenza tra modernità e antichità. Una volta ancora è Anselmo Paleari a descrivere il dramma della modernità con un’immagine teatrale: «La tragedia d’Oreste in un teatrino di marionette! [...] Già! D’après Sophocle, dice il manifestino. Sarà l’Elettra. Ora senta un po’ che bizzarria mi viene in mente! Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe? Dica lei. - Non saprei, risposi, stringendomi ne le spalle. - Ma è facilissimo, signor Meis! Oreste rimarrebbe sconcertato da quel buco nel cielo. [...] Oreste sentirebbe ancora gl’impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì, a quello strappo, donde ora ogni sorta di mali influssi penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto. Tutta la differenza, signor Meis, fra la tragedia antica e la moderna consiste in ciò, creda pure: in un buco nel cielo di carta».
Nella tragedia shakespeariana Amleto non sa se il fantasma che gli è apparso vicino al castello e che si è rivelato come il fantasma di suo padre sia reale oppure no. Deve verificarlo, deve sospendere tutta la sua vita, inibire i legami affettivi (l’amicizia con Laerte, l’amore che prova per Ofelia), interrompere gli studi (il corso universitario di filosofia in Germania), rinunciare al suo futuro (la successione al trono del Regno di Danimarca). Il dubbio lo paralizza, gli impedisce di agire, di vivere, lo rende inerte, accidioso, nulla vale più davvero la pena. Più che rappresentare la concezione della vita di Pirandello Anselmo Paleari sintetizza nel suo pensiero la modernità e il suo approccio gnoseologico quando dubita addirittura del limite ontologico per eccellenza, la morte. Anch’essa, infatti, potrebbe essere frutto di una percezione nostra, del nostro lanternino che si spegne.
Così, Paleari disserta: «E se tutto questo bujo, quest’enorme mistero, nel quale indarno i filosofi dapprima specularono, e che ora, pur rinunziando all’indagine di esso, la scienza non esclude, non fosse in fondo che un inganno come un altro, un inganno della nostra mente, una fantasia che non ci colora? Se noi finalmente ci persuadessimo che tutto questo mistero non esiste fuori di noi, ma soltanto in noi, e necessariamente, per il famoso privilegio del sentimento che noi abbiamo della vita, del lanternino cioè, di cui le ho finora parlato? Se la morte, insomma, che ci fa tanta paura, non esistesse e fosse soltanto, non l’estinzione della vita, ma il soffio che spegne in noi questo lanternino, lo sciagurato sentimento che noi abbiamo di essa, penoso, pauroso, perché limitato, definito da questo cerchio d’ombra fittizia, oltre il breve àmbito dello scarso lume, che noi, povere lucciole sperdute, ci projettiamo attorno […]. Il limite è illusorio, è relativo al poco lume nostro, della nostra individualità: nella realtà della natura non esiste».
Pirandello non vuole certo costruire un sistema filosofico fondato sul relativismo, né tantomeno dimostrare che la realtà non esiste. Intende, invece, palesare la difficoltà dell’uomo ad arrivare a cogliere la realtà e, quindi, la verità. Così nel capitolo XIII lo scrittore profezia l’avvento del relativismo. Anselmo Paleari sta raccontando allo stupito Adriano la propria visione della modernità attraverso alcune immagini mutuate dal mondo del teatro: «A noi uomini [...], nascendo, è toccato un tristo privilegio: quello di sentirci vivere, con la bella illusione che ne risulta: di prendere cioè come una realtà fuori di noi questo nostro interno sentimento della vita, mutabile e vario, secondo i tempi, i casi e la fortuna. E questo sentimento della vita [...] era appunto come un lanternino che ciascuno di noi porta in sé acceso; un lanternino che ci fa vedere sperduti su la terra, e ci fa vedere il male e il bene; un lanternino che projetta tutt’intorno a noi un cerchio più o meno ampio di luce».
L’immagine del lanternino è utilizzata per rappresentare la visione del mondo e della vita. Ebbene, a detta di Pirandello, in alcune epoche storiche, questi lanternini individuali, connotati da colori differenti, assumono, invece, lo stesso colore. Afferma, infatti, Anselmo Paleari: «A me sembra [...] che in certe età della storia, come in certe stagioni della vita individuale, si potrebbe determinare il predominio d’un dato colore, eh? In ogni età, infatti, si suole stabilire tra gli uomini un certo accordo di sentimenti che dà lume e colore a quei lanternoni che sono i termini astratti: Verità, Virtù, Bellezza, Onore, e che so io... E non le pare che fosse rosso, ad esempio, il lanternone della Virtù pagana?[...] Il lume d’una idea comune è alimentato dal sentimento collettivo; se questo sentimento però si scinde, rimane sì in piedi la lanterna del termine astratto, ma la fiamma dell’idea vi crepita dentro e vi guizza e vi singhiozza, come suole avvenire in tutti i periodi che son detti di transizione. Non sono poi rare nella storia certe fiere ventate che spengono d’un tratto tutti quei lanternoni».
A questo punto i lanternini si muovono nel buio, si scontrano, tornano indietro in mezzo ad una grande confusione. Tutti i lanternoni sono spenti e gli uomini non sanno più a chi rivolgersi. Questa è la descrizione della modernità: non più un lanternone comune che permetta di inoltrarsi nel reale illuminandolo con una luce collettiva, ma tante piccole luci che vagano come lucciole nella campagna estiva, troppo piccole per permettere una visione chiara e univoca della realtà.