Matteo Ricci, un missionario da riscoprire
L’11 maggio di 410 anni fa moriva a Pechino padre Matteo Ricci (1552-1610). Il missionario gesuita andò in Cina con lo scopo primario di convertire i cinesi a Cristo e a questo fine usò anche le sue conoscenze scientifiche. Al centro della sua idea, come spiegò Giovanni Paolo II, c’era un corretto rapporto tra fede cattolica e cultura da evangelizzare.
In tempo di anniversari, è importante fare memoria di importanti figure della nostra storia e tradizione, per cercare di ripulire la loro immagine da certe incrostazioni e restituirla all’attenzione generale, in maniera più pura e significativa. Noi sappiamo come una potente narrativa generale, non in senso veramente cattolico, ci spinge a vedere certe figure come san Francesco d’Assisi, santa Teresa di Calcutta, san Giovanni Paolo II in una luce diversa da quella di cui questi grandi personaggi risplendevano, una luce che ben si adatta ai desideri del mondo.
Un altro personaggio che a mio avviso ha subito un destino simile è il padre gesuita Matteo Ricci (6 ottobre 1552-11 maggio 1610), di cui celebriamo i 410 anni dalla morte, avvenuta in quel di Pechino. Personalmente, ho voluto dedicare un volumetto a padre Matteo Ricci chiamato “Il bene più prezioso. Lettera a Matteo Ricci sulla Cina”, in cui è sviluppata la tesi di cui sopra, cioè che Ricci non fosse andato missionario in Cina per fare “amicizia” con il popolo cinese come scopo precipuo della sua missione, ma per convertire i cinesi a Cristo e per annunciare loro il messaggio di salvezza.
Certo, non si nega che stabilire buoni rapporti con la corte imperiale e con gli studiosi cinesi fosse importante, ma era un mezzo, non un fine. Se priviamo padre Matteo Ricci, come san Francesco o madre Teresa, del loro bene più prezioso, la fede, li facciamo divenire araldi del pensiero dominante, qualcosa che gli stessi avrebbero di tutto cuore detestato. Si pensa che questi grandi cristiani avrebbero quasi abdicato al bene più prezioso, appunto la loro fede, in favore dell’ecologismo, del pacifismo, del pauperismo, del sincretismo, ma questo non è affatto vero. Padre Matteo Ricci, nella sua missione verso i cinesi, aveva sempre in mente come fine supremo quello della loro conversione, e a questo scopo usava anche l’impressionante conoscenza scientifica che aveva acquisito, insieme a quella teologica, nei suoi studi al Collegio Romano dei gesuiti.
Giovanni Paolo II, commemorando Matteo Ricci nel 1982, affermava che il grande gesuita cercava di inserirsi nella società cinese perché “intendeva mostrare che la fede religiosa non portava ad una fuga dalla società, ma ad un impegno nel mondo, in vista del perfezionamento della vita sociale fino all’apertura verso la redenzione in Cristo e verso la vita di grazia nella Chiesa”. Insomma, lo scopo ultimo rimaneva quello di portare i cinesi alla fede, non di farli divenire scienziati o artisti migliori (il che poteva anche accadere, ma come conseguenza).
Sempre nello stesso discorso, Giovanni Paolo II affermava: “Come già i Padri della Chiesa per la cultura greca, così padre Matteo Ricci era giustamente convinto che la fede in Cristo non solo non avrebbe portato alcun danno alla cultura cinese, ma l’avrebbe arricchita e perfezionata. I suoi discepoli cinesi, alcuni dei quali divennero eminenti uomini di governo, mostrarono di essere convinti che accettare la fede cristiana non implicava affatto l’abbandono della propria cultura, né una diminuita lealtà al proprio Paese e alle sue tradizioni, ma anzi che la fede permetteva loro di offrire alla patria un servizio più ricco e qualificato”.
Questo è un concetto chiave, l’incontro fra cultura cattolica e cultura cinese, un concetto che in realtà è ancora al centro delle difficoltà nell’opera di evangelizzazione nella Cina. Una difficoltà che si chiarisce in due modi: il primo, quello che ha sottolineato Giovanni Paolo II, è che la vera attività missionaria non è un tentativo per “occidentalizzare” la Cina, ma per “cattolicizzarla”. Questi due concetti, anche se da parte cinese vengono a volte sapientemente confusi, sono in realtà ben distinti. Il secondo, è che certamente il cattolicesimo - come intuiva padre Matteo Ricci, e mille anni prima di lui san Gregorio Magno - deve essere pronto a recepire quello che di buono può esserci nella cultura che si va ad evangelizzare. Nel caso della Cina, c’è naturalmente moltissimo, penso al pensiero confuciano. Quindi si deve, da parte di coloro che sono ben saldi nella teologia cattolica tradizionale e che conoscono bene il pensiero cinese, tentare un incontro che risulti in un arricchimento, non in un annacquamento.
Per rispetto a Matteo Ricci, si deve tentare un recupero del suo spirito più autentico, proprio per non farlo apparire in una maniera che lui, cristiano e cattolico di straordinaria tempra, avrebbe profondamente detestato.