Mattarella e la rinascita della lingua italiana
Intervenendo all’82° congresso della Società Dante Alighieri, il presidente della Repubblica ha avuto il merito di richiamare l’attenzione sul ruolo e sulla sorte della lingua italiana. E' più studiata nel mondo di quanto non si creda. Ma è svilita in Italia, vittima di un falso bilinguismo anglo-italiano.
Intervenendo sabato scorso a Milano all’82° congresso internazionale della Società Dante Alighieri, l’ente che si occupa della promozione della lingua italiana nel mondo, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha avuto così il merito di richiamare l’attenzione sul ruolo e sulla sorte dell’italiano, un tema importante ma ciononostante molto trascurato nel nostro Paese. Come ha, con semplicità, confessato nel suo discorso, viaggiando si sta accorgendo anche lui che la percezione che si ha dell’Italia nel resto del mondo è migliore di quanto spesso si pensi qui da noi, e che la lingua italiana ha pure un uso internazionale maggiore di quanto di solito si crede. Mattarella ha osservato che diventa pure importante che l’italiano venga bene appreso dagli immigrati in Italia a fini sia di integrazione che di reciproca comunicazione tra loro.
Senza però commentare oltre il discorso di Mattarella nella circostanza, peraltro accessibile a chiunque su Internet, penso valga la pena di prenderne spunto per qualche riflessione su quella che si potrebbe definire la politica della lingua, anzi delle lingue nel nostro Paese. Tra le emergenze non economiche, ma non per questo meno importanti, che stanno travagliando l’Italia sarebbe ora di scoprire che c’è anche un’emergenza linguistica. E’ in atto un vero e proprio processo di inquinamento dell’italiano corrente. Beninteso, un certo grado di afflussi di parole da altre lingue è fisiologico, tanto più quando si tratti di oggetti o di concetti che provengono da altri Paesi e da altre culture: si pensi ad esempio alla parola computer. Poi nel tempo la parola straniera o si inserisce definitivamente (ad esempio, sport) oppure viene lasciata cadere e sostituita con una nuova parola italiana (è il caso di chauffeur e di autista). Nel caso dell’italiano attuale però siamo ormai al patologico, e al patologico grave. Quando “concorrente” cede il passo a competitor, “eliminatoria” a play off o “esaurito” a sold out, quando cioè si introducono parole straniere senza alcun ragionevole motivo e il fenomeno diventa massivo allora siamo di fronte a una crisi culturale. Significa che una parte consistente dei proverbiali addetti ai lavori non è più in grado di concettualizzare e quindi di tradurre; oppure ritiene conveniente ridurre a tale incapacità la gran massa dei consumatori.
Nello scorso marzo la questione era già stata sollevata dall’Accademia della Crusca, la plurisecolare istituzione incaricata della tutela dell’italiano; e ciò avvenne grazie, il che è molto significativo, al sostegno di istituzioni della Svizzera Italiana. Pare che oggi l’italiano sia la quarta lingua più studiata nel mondo. Senza tornare di nuovo su cose già scritte allora dico che conservare e anzi allagare lo spazio dell’italiano come lingua d’uso internazionale implica che innanzitutto in Italia non lo si lasci ridurre a un lingua creola. Di questo degrado è tanto una causa quanto un effetto l’attuale penosa smania per l’inglese come presunto passe-partout della globalizzazione. Una penosa smania che ai due estremi del sistema scolastico spinge, da un lato, alle cosiddette sezioni bilingui italo-inglesi nelle scuole primarie e, dall’altro, ai corsi universitari che, in diversi atenei italiani, docenti di lingua materna italiana devono tenere in lingua inglese a studenti per lo più di lingua materna italiana: una cosa che se non fosse triste sarebbe comica. Scelte di questo genere, da un lato, colpiscono alla base la capacità di apprendimento delle lingue straniere, che presuppone una previa solida conoscenza della propria lingua materna, e dall’altro tendono a produrre un laureato con una formazione da quadro esecutivo delle multinazionali e non da testimone e promotore di un ruolo economico attivo del nostro Paese nel mondo globalizzato in cui viviamo.
Le urgenze in campo linguistico del mondo in cui viviamo si affrontano attivamente non passando dal monolinguismo italiano al monolinguismo inglese (e nemmeno dell’inglese vero, ma dello pseudoinglese oggi dilagante) bensì tornando al plurilinguismo, un tempo normale in Europa. Oggi di lingue straniere se ne dovrebbero sapere almeno due o tre, a partire innanzitutto dalle lingue dei Paesi nostri vicini per arrivare infine all’inglese. In Italia vige attualmente l’obbligo scolastico di dieci anni di studi fra i sei e i sedici anni di età, più altri due anni di obbligo formativo, soddisfabile anche fuori dell’ambiente scolastico, fino al diciottesimo anno di età. Stando così le cose, l’apprendimento effettivo di due lingue straniere entro i sedici anni e di una terza entro i diciotto anni non è una grande impresa; dovrebbe essere la normalità. In tale prospettiva però partire dall’inglese è un errore, o forse qualcosa che può andar bene soltanto nel Lazio, in Umbria e in alcune regioni del Mezzogiorno. Dalla maggior parte delle località del resto d’Italia nell’arco di una giornata al massimo via terra o via mare si va e si viene da Paesi di altra lingua. Siamo insomma a contatto con vicini che parlano altre lingue, ed è da queste lingue che si deve partire. Una gita scolastica giornaliera alla scoperta del fatto che i nostri vicini parlano un’altra lingua vale di più di tante lezioni sull’importanza dello studio delle lingue straniere. E’ dalla lingua del vicino che si deve partire per arrivare poi bene anche all’inevitabile inglese. Se invece si sceglie il percorso inverso di solito non si arriva nemmeno a una conoscenza dell’inglese all’altezza dello sproporzionato numero di anni che gli sono stati dedicati.