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INTERVENTO

Matrimonio indissolubile. Senza eccezioni

Quando si parla del rapporto tra misericordia e verità si deve prima affrontare il tema della coscienza, perché la causa più grave delle "malattie" dell'agire umano è la "coscienza erronea" che confonde il male con il bene. E non ci può essere una misericordia che contraddica la verità. Sui temi del Sinodo, don Roberto Colombo interviene a favore del cardinale Caffarra contro la Civiltà Cattolica.

Ecclesia 30_06_2015
Matrimonio

Caro Direttore,

nei giorni scorsi La Nuova Bussola ha aperto un interessante dibattito su una questione decisiva che, alla ripresa dei suoi lavori in ottobre, il Sinodo dei vescovi sulla famiglia non potrà eludere: il rapporto tra misericordia e verità. Una questione che, al di là dell’occasione che l’ha innescata (il riferimento è ai fedeli divorziati e risposati civilmente), suona come istruttiva per ogni declinazione della moralità del credente e della vita della Chiesa ed è stata oggetto di un lucido e convincente intervento su queste colonne del Cardinale Carlo Caffarra, arcivescovo di Bologna, (clicca qui) in risposta all’articolo di padre Gian Luigi Brena s.j. – Misericordia e verità – apparso sul numero 3958 de La Civiltà Cattolica (30 maggio 2015, pagg. 329-338).

Chiedo ospitalità al Suo quotidiano online e mi inserisco nella quaestio disputata partendo anch’io dall’articolo della rivista dei gesuiti, non per aggiungere alcunché alle robuste argomentazioni del Cardinale Caffarra, ma per sviluppare qualche riflessione parallela a partire da un passo dello stesso testo:

«Le norme [che riguardano le coppie di sposi] restano sensate e valide – scrive l’Autore – ma non si può pretendere che esse decidano sempre tutti i casi particolari nei quali l’azione acquista il suo concreto e decisivo significato. E dato che non si possono prevedere tutti i casi, occorre affidare alla coscienza dei protagonisti la responsabilità ultima della decisione sul da farsi nelle singole circostanze. È tradizionale – specifica p. Brena – anche il principio della coscienza individuale come criterio prossimo della responsabilità delle persone».

Giustamente l’Autore ricorda che la coscienza morale è l’ultima, ma anche “la più prossima” norma dell’agire: per questo essa viene chiamata anche “norma soggettiva”. Ciò non di meno, pur essendo categoricamente normativa (norma normans) la coscienza non è ab-soluta, svincolata da ogni riferimento ad altre istanze del bene. Tradizionalmente, questo rimando della coscienza ad Altro rispetto a sé (che non è “fuori” di me, ma “intimior intimo meo”, come suggerisce Sant’Agostino; Confessioni III, 6, 11) viene espresso dicendo che essa è anche “norma normata” o “misura misurata”. È comunque fuori discussione che si deve sempre seguire la voce chiara della propria coscienza, o almeno che non si può agire in opposizione ad essa.

Resta però aperta la domanda se il giudizio di coscienza, o ciò che noi attribuiamo ad essa, abbia sempre ragione nell’indicarci il bene da fare e il male da evitare, oppure possa sbagliarsi. Se è vero – come afferma p. Brena, in sintonia con il Catechismo della Chiesa Cattolica (cf. CCC § 1781) – che la responsabilità morale delle scelte dell’uomo in ordine ai propri atti è vincolata al giudizio della coscienza, è però ragionevole chiedersi se l’assunzione di questa responsabilità (con la sua inevitabile drammaticità) possa fondarsi sulla capacità della coscienza di orientare “in verità” l’agente morale verso la predilezione del bene e il disgusto del male.

Diverse sono le risposte che l’antropologia e l’etica hanno dato a questa domanda. Se escludiamo quelle offerte dalle correnti postmoderne dell’antropologia “debole” e dell’etica “senza verità” che hanno prima liquefatto e poi dissolto la coscienza privandola della sorgente della sua consistenza (pensieri cui evidentemente non fa riferimento l’Autore dell’articolo), la risposta che ha guidato per secoli il pensiero occidentale nell’intelligenza del movente dell’agire è quella suggerita da San Gregorio Magno: «La conoscenza della verità precede sempre l’amore della verità». (Omelie sui vangeli XIV, 3). Per quanto concerne le verità pratiche (quelle che riguardano il bene della persona), occorre aggiungere – come ha ricordato il Cardinale Caffarra – che esse possono venire pienamente apprezzate solo quando il soggetto vi aderisce attraverso la propria libertà, attuando una «“coesione esistenziale” tra persona e verità pratica. […] La veritas agenda dimora dentro l’autodeterminazione della persona, ed è la coscienza ad introdurvela. La libertà la realizza o la nega: questa è la coesione esistenziale o la verità della soggettività».

Anche quando la “verità” che muove qualcuno ad agire in un determinato modo mi appare come una menzogna, e il “bene” che egli afferma di scegliere deliberatamente suona ai miei orecchi come un male, devo ammettere che l’uomo agisce sempre nel desiderio di un “bene” (quidquid appetitur, appetitur sub specie boni) che egli riconosce o intravvede come un “vero” bene, qualunque sia la bontà o la malizia di questo “bene” e la verità o la menzogna del “vero” che glielo indica come “bene”. San Paolo e San Giovanni evidenziano questo nesso tra verità e scelte di vita rispettivamente con le espressioni «vivere secondo la verità dell’amore» (Ef 4, 15) e «camminare nella verità» (2 Gv 1, 4). Prima che porsi – e per potersi dare in forma solubile – il dilemma rilanciato da p. Brena, quello sul primato della misericordia o della verità, occorre interrogarsi sul rapporto tra coscienza e verità, perché è proprio all’azione deliberata in coscienza e alle sue conseguenze che si rivolge la misericordia per sanare la ferita, il vulnus che da essa talvolta scaturisce.

Se la misericordia è una medicina – ce lo suggerisce il riferimento all’“ospedale da campo”, una bellissima immagine della missione della Chiesa nel mondo, cara a papa Francesco e carica di reminiscenze bibliche, a partire dal nome di un arcangelo, Raffaele (che in ebraico significa "medicina di Dio" o "Dio guarisce"), e fino a Gesù, la cui azione taumaturgica è indissolubilmente legata alla sua missione salvifica, che la Chiesa attualizza –, prima di applicare questo farmaco spirituale al “malato” nella posologia corretta ed efficace contro il male di cui soffre, occorre fare un’attenta diagnosi per scoprire la causa della sua “malattia”, l’origine della sofferenza che si vuole lenire. Altrimenti, come talvolta accade nei trattamenti farmacologici prescritti dal medico (o autosomministrati dal paziente) senza giustificazione razionale, il rimedio è peggiore del male e, alla lunga, nuoce alla salute più della patologia stessa.

La causa più grave delle “malattie” dell’agire umano (non infrequentemente contagiose) è una “coscienza erronea”: una coscienza che, abbagliata (o addirittura accecata), confonde il male con il bene e il bene con il male. Non vede più colpe né peccati di cui possa macchiarsi e non scorge più meriti né virtù che già non abbia. Il salmista chiede a Dio: «Chi si accorge dei propri errori? Purificami da quelli che non riesco a vedere». (Sal 19, 12) Il fariseo nel tempio si rivolge a Dio con orgoglio rivendicando la propria condotta onesta, senza che gli venga in mente un solo peccato (cf. Lc 18, 10-12) Non è forse questa l’esperienza di una coscienza erronea, testimoniata già nella Bibbia? Senza riandare agli esempi risaputi di quanti, in passato e al presente, hanno compiuto azioni riprovevoli di diverso genere convinti in coscienza loro di beneficiare l’umanità o addirittura dar gloria a Dio, ricordo quanto mi confidò, ancora agli inizi del mio sacerdozio, una madre di due bambini ancora in tenera età: “Sono assolutamente certa che lasciare mio marito e iniziare una nuova vita matrimoniale con l’uomo di cui ora sono innamorata e che ama i miei figli come fossero suoi sia l’unica cosa giusta da fare per me e per loro”. Al mio invito a riflettere prima di prendere questa decisione la sua risposta fu lapidaria: “Non ho dubbi. Non vedo altra strada che la mia coscienza mi suggerisca di percorrere”.

Purtroppo, anche il secondo matrimonio (civile) non durò a lungo e i ragazzi, ormai cresciuti, dopo un periodo di sbando andarono a vivere con il proprio padre. Le vicende dei divorziati risposati e dei loro figli non vanno sempre a finire così – sento già questa obiezione – e ne sono consapevole. E continuo ad accompagnare con il ministero e l’amicizia personale anche chi ha fatto questa dolorosa scelta e a pregare per loro. Ma ciò nulla toglie alla possibilità che la coscienza degli sposi in difficoltà di vita comune sbagli nel considerare il vincolo matrimoniale, abbracciato dalla loro libertà e suggellato dalla grazia di Dio, come un ostacolo che si frappone al compimento della propria vocazione di coniugi e genitori e non, invece, una risorsa per ritornare ad fontes, all’inesauribile sorgente di essa. 

«Dato che non si possono prevedere tutti i casi» – come afferma p. Brena – «occorre affidare alla coscienza dei protagonisti la responsabilità ultima della decisione sul da farsi nelle singole circostanze», senza nemmeno prendere in considerazione l’eventualità che essa possa sbagliarsi? Mi sembra una posizione priva di realismo, che non tiene conto della vulnerabilità della coscienza a tanti agenti patogeni interni ed esterni ad essa, per difendersi dai quali non ha in sé anticorpi infallibili. Come ricordava l’allora Cardinale Ratzinger in un intervento del 1991: «Non si può identificare la coscienza dell’uomo con l’autocoscienza dell’io, con la certezza soggettiva su di sé e sul proprio comportamento morale. Questa consapevolezza da una parte può essere un mero riflesso dell’ambiente sociale e delle opinioni ivi diffuse. D’altra parte può derivare da una carenza di autocritica, da una incapacità di ascoltare le profondità del proprio spirito».

Proprio perché riconosciamo «il principio della coscienza individuale come criterio prossimo della responsabilità delle persone», come si legge nell’articolo de La Civiltà Cattolica, dobbiamo adoperarci per sciogliere la coscienza da ogni consapevolezza superficiale, falsa sicurezza di sé, tentazione di autogiustificazione, automatismo di decolpevolizzazione, conformismo o pigrizia, che non la rendono libera. E dove non c’è libertà di coscienza, non vi è responsabilità autentica, ovvero risposta all’appello del bene e rifiuto del male.

In ogni caso, dobbiamo seguire la nostra coscienza certa, anche se essa può rivelarsi erronea. È questa la dottrina tradizionale, che riflette proprio l’idea di coscienza come “norma (comunque) prossima” dell’agire dell’uomo. Non si abbandona una guida sicura solo perché è malata, anche se corriamo il rischio che, a motivo della sua infermità, ci faccia sbagliare strada e ci porti laddove non è la meta: si continua a seguirla, ma ci si prende cura di lei con una terapia efficace perché guarisca presto e torni ad indicarci la retta via, a non farci smarrire. È il rischio serio della vita quello di seguire ultimamente la propria coscienza, ma non abbiamo alternative senza perdere la nostra giusta autonomia, senza diventare schiavi di noi stessi o degli altri.

«Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,32). Nel modo più limpido e autorevole, le parole di Gesù mostrano l’unica possibilità di affrontare il rischio di affidarci ultimamente alla coscienza senza perdere la nostra libertà: renderla vera, autentica (oltre che certa), attraverso l’incontro con la verità di noi stessi che ci è stata rivelata da Dio in Gesù Cristo, lasciare che essa prenda possesso della nostra coscienza, vi abiti “abitualmente” (i medioevali chiamavano habitus la virtù, ovvero il modo abituale di orientarsi al bene). La causa ultima della malattia degenerativa (talvolta anche mortale) della coscienza è la rinuncia, il rifiuto di confrontarsi con la verità, che sulle prime dà all’uomo la falsa sicurezza di farcela da solo nella ricerca del bene, ma poi lo abbandona nel deserto morale, tra le sabbie mobili delle opinioni tutte “vere” e nessuna “vera” (relativismo) e l’orizzonte sconfinato del nulla (nichilismo).

Può la coscienza giustificare la scelta del divorzio e di un secondo matrimonio? Qualora compiuta con piena consapevolezza dell’intelletto e deliberato consenso della volontà (sulla copresenza di queste due note del peccato grave occorrerà un discernimento personale e spiritualmente accompagnato nel cammino di verifica proposto ai divorziati, anche in riferimento alla ricezione dell’Eucaristia), la decisione di unirsi sacramentalmente in matrimonio prima, e di contrarre nuove nozze successivamente secondo la legge civile, è il frutto di un duplice giudizio della coscienza. In prima istanza essa riconosce come un “bene permanente per sé” (in ordine alla propria vocazione alla santità) il vincolo nuziale d’amore consacrato da Dio con il proprio marito o la propria moglie, e nella successiva disconosce questo bene originalmente vocazionale per assumere come “nuovo bene per sé” – inconciliabile e alternativo rispetto al precedente – il legame matrimoniale non consacrato da Dio con un altro uomo o un’altra donna. Un duplice giudizio che, pur differito nel tempo, inerisce allo stesso soggetto ed appare in sé contradditorio (le mutate circostanze in cui lo stato di vita matrimoniale – la vocazione – si attua nel tempo, talora rendendone più arduo il cammino di perfezione, così da esigere anche la separazione dal coniuge, non cancellano la permanenza del bene del matrimonio, garantito dalla grazia sacramentale).

Qualunque sia la valutazione sulla qualità di “bene per sé” che è stata ascritta dal coniuge prima all’unione sacramentale indissolubile e successivamente al matrimonio civile, appare evidente che il cuore della questione è il rapporto tra la coscienza e la verità di quel bene che è in gioco nel rapporto sponsale tra un uomo e una donna. Poiché la verità, non solo quella teoretica ma anche quella pratica, non può essere contradditoria (sic verum vero congruit, ut veritas veritati non possit esse contraria; cf. Concilio Lateranense V, Bolla Apostolici Regiminis, 1513), i casi sono due: il giudizio di coscienza che ha espresso il consenso al vincolo matrimoniale sacramentale è erroneo, oppure è vero e ad essere erroneo è quello che ha determinato il divorzio e il matrimonio civile. Nel primo caso, la misericordia si attuerà nel favorire le condizioni che consentano il riconoscimento da parte della competente autorità ecclesiastica delle implicazione di questo errore di coscienza in riferimento alla validità del matrimonio contratto in chiesa, per esempio rendendo più rapido e meno oneroso il processo canonico volto all'accertamento della sua nullità, come suggerito dall’Instrumentum laboris (nn. 114-115) per la ormai prossima ripresa del Sinodo sulla famiglia. Nel secondo caso, la misericordia dovrà esercitarsi anzitutto nella forma della “carità della verità” (un’espressione attribuita al beato don Giacomo Alberione, che probabilmente la assume dal Rosmini, ma sviluppata teologicamente e pastoralmente in forma limpida e convincente da Benedetto XVI nella sua Caritas in veritate), per «rivelare loro la divina pedagogia della grazia nelle loro vite e aiutarle a raggiungere la pienezza del piano di Dio in loro». (Instrumentum laboris, 62)

La medicina della misericordia, per rimarginare la ferita inferta al vincolo tra l’uomo e la donna che Dio ha suggellato con la sua grazia per sempre, deve aiutare la coscienza del divorziato risposato civilmente a riconciliarsi con la verità dell’amore sponsale benedetto e a ritrovare in esso la radice inestirpabile della propria vocazione alla santità, che nessuna circostanza, per quanto dolorosa e sofferta, può cancellare. Essa trova nella grazia stessa del sacramento del matrimonio la forza sovrumana di ricominciare ogni giorno il cammino intrapreso, come testimoniano numerose coppie di sposi conviventi o separati che sperimentano la fatica e la bellezza al medesimo tempo di questa vocazione naturale e graziosa.

I percorsi di questa “riconciliazione con la verità” (cf. Benedetto XVI, Udienza generale, 7 luglio 2010) – espressione che dice la stessa realtà di “riconciliazione con Dio”, la Verità assoluta, e di “riconciliazione con la Chiesa”, testimone e strumento della verità di Dio e dell'uomo – sono quelli suggeriti dallo stesso Instrumentum laboris (nn. 56-60 e passim) e saranno discussi e proposti dal Sinodo dei vescovi.

Il primato della misericordia sulla verità non consiste nell’introdurre delle eccezioni alle norme che riguardano i divorziati risposati, come quelle proposte da p. Garrigues o.p., sulla cui insostenibilità di principio e logica si sono già pronunciati molti e lo stesso Cardinale Caffarra su queste colonne. Esse mirano ad alleviare la fatica del percorso della loro libertà nella riconciliazione con la verità dell’amore sponsale consacrato proponendo, in alcune circostanze, una scorciatoia che legittimerebbe ut in paucioribus la non applicazione di una modalità di condotta che varrebbe ut in pluribus.

Una simile decisione sarebbe in contraddizione con l’assoluta indissolubilità del matrimonio. E neppure il primato della misericordia sulla verità può essere identificato in una “gradualità della legge”, assumendo la debolezza della persona nel cammino di conversione come improponibile misura di ciò che è essa è chiamata a vivere come bene e ad evitare come male: improponibile in quanto Cristo «ci ha donato la possibilità di realizzare l’intera verità del nostro essere» (Giovanni Paolo II, Veritatis splendor 103), qualunque sia la condizione fisica o morale in cui ci veniamo a trovare. Resta comunque aperta e raccomandabile la via indicata dalla “legge della gradualità”, che recepisce la diversa progressività nel conoscere, nel desiderare e nel fare il bene da parte di ogni persona, anche quella che si trova in una condizione di irregolarità matrimoniale: «L’uomo, chiamato a vivere responsabilmente il disegno sapiente e amoroso di Dio, è un essere storico, che si costruisce giorno per giorno, con le sue numerose libere scelte: per questo egli conosce, ama e compie il bene morale secondo tappe di crescita» (Giovanni Paolo II, Familiaris consortio 34).

In quale senso può dunque essere rettamente inteso il primato della misericordia sulla verità nei confronti dei divorziati risposati? Ex parte Dei, l’ultima parola sulla vita dell’uomo è nelle mani del Deus dives in misericordia, che per riportare l’uomo alla bellezza della sua verità originale, deturpata dal peccato, ha fatto Lui la prima mossa, gli è corso incontro e gli ha gettato le braccia al collo, come il padre del figlio prodigo nella parabola del vangelo di Luca (15, 11-32). Nell’immanenza di Dio, misericordia e verità coincidono; nell’economia della salvezza offerta dal Dio Padre all’uomo in Gesù Cristo, la misericordia della Croce anticipa la «verità tutta intera» (Gv 16, 13) cui ci introduce lo Spirito Santo nella Pentecoste. Ex parte Ecclesiae, l’attenzione agli sposi in cui si è aperta una ferita nel tessuto sacramentale del loro matrimonio attraverso una scelta che nega la verità della loro vocazione deve manifestare il primato pedagogico, pastorale e testimoniale della misericordia. Il primato pedagogico, perché l’abbraccio della misericordia è la via che introduce all’incontro con la verità di Dio e dell’uomo: Gesù, prima di condurre la Samaritana al riconoscimento che quello che ha ora non è suo marito (cf. Gv 4, 18), siede accanto a lei nei pressi del pozzo e sfida l’estraneità e i pregiudizi dettati dall’inimicizia tra giudei e samaritani, “conquistandola” attraverso un profondo sguardo d’amore che le apre la mente e il cuore alla verità su Gesù, il Salvatore, e a quella su sé stessa, una peccatrice che trova salvezza in Lui. Il primato pastorale, secondo l’insegnamento evangelico del pastore che, prima di preoccuparsi di pascolare tranquillamente le novantanove pecore a lui fedeli, le lascia per andare in cerca di quella smarrita (cf. Lc 15, 4-7).

E, infine, ma non meno rilevante per la missione della Chiesa, il primato testimoniale: ogni “ospedale da campo” – per riprendere la figura icastica di papa Francesco – è riconosciuto sul terreno di battaglia dalla bandiera con una croce rossa. Rosso, il colore del fuoco della carità e del sangue versato sulla croce da Cristo. Senza misericordia, che della carità è il volto più inequivocabile e persuasivo, e senza il richiamo al sacrificio di Gesù sulla croce non è possibile alla donna e all’uomo ferito riconoscere il luogo dove può trovare accoglienza e perdono nella riconciliazione con la propria verità. La bandiera non coincide né è alternativa alla cura, ma è il segno distintivo di essa, che la manifesta a tutti: non c’è verità “visibile” senza che essa traspaia attraverso il volto della misericordia. Ma una misericordia senza verità è un volto anonimo, che non identifica la Chiesa con la sua missione; una maschera dietro cui si nasconde la paura di testimoniare il Vangelo quando la sua verità rende la Chiesa invisa agli occhi della cultura dominante.