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Mastro don Gesualdo, solitudine senza affetti

Mastro don Gesualdo e Mazzarò hanno un credo comune: la roba. La differenza tra i due è grande: Mazzarò non sa cosa siano Dio, l’amore, l’amicizia. Mastro don Gesualdo ha un parametro di riferimento diverso, perché lui ha conosciuto gli affetti veri. Per questo anche in punto di morte il protagonista cercherà un rapporto sincero con la figlia.

Cultura 30_07_2017
Una rappresentazione teatrale di Mastro don Gesualdo

Come è noto il personaggio di Mazzarò è lo spunto per la genesi del romanzo Mastro Don Gesualdo. L’omonimo protagonista rispecchia in parte il suo antenato per l’arricchimento e la scalata sociale, ma ha un cuore che palpita e una consapevolezza che si risveglia in lui di fronte alla malattia e alla solitudine.

Secondo romanzo del Ciclo dei vinti, pubblicato nel 1889 dalla casa editrice Treves, lo stesso anno in cui esce Il piacere di D’Annunzio, Mastro Don Gesualdo racconta vicende ambientate in Sicilia nell’epoca risorgimentale, in particolare tra il 1819 e il 1848. Non tutto può essere descritto di un arco temporale così ampio, molto più ampio rispetto ai Malavoglia, così molte ellissi temporali interrompono il racconto, creando blocchi narrativi separati l’uno dall’altro. Lo scrittore decide di adottare punti di vista variabili nella narrazione: non c’è quindi solo una prospettiva da cui sono raccontate le vicende, ma ve ne sono tante che si identificano di volta in volta con quello del protagonista o di tanti altri personaggi che appartengono al mondo in cui vive Mastro don Gesualdo. Viene meno, però, la prospettiva corale che, spesso, connotava il racconto nel romanzo precedente. Il linguaggio si eleva rispetto ai Malavoglia, perché non è più descritto il mondo dei pescatori, ma i contesti rappresentati sono spesso quello della borghesia o della nobiltà.

Il romanzo ha come protagonista Gesualdo Motta, un muratore di Vizzini che, arricchitosi, negli anni diviene imprenditore e intraprendente uomo d’affari. Crescono il suo patrimonio e le sue ricchezze, ma non si modificano nella sostanza la sua cultura e i suoi atteggiamenti che continuano ad essere rozzi e inadeguati alla scalata sociale che sta guadagnando.

L’inizio della narrazione avviene in medias res. Scoperta la relazione tra Bianca Trao, nobile dal blasone storico, ma spiantata e impoverita, e il cugino Ninì Rubiera, si organizza il matrimonio della donna con Mastro don Gesualdo. Attraverso lunghi flashback scopriamo che negli anni addietro il protagonista ha conosciuto l’amore nella figura della serva Diodata da cui ha avuto anche dei figli, che, però, non ha voluto riconoscere. Quando Mastro don Gesualdo sposa Bianca Trao, ottenendo così il titolo nobiliare, ma non l’affetto, la donna aspetta già una figlia da poche settimane, frutto della precedente relazione con il cugino. Per Bianca Trao il matrimonio ha una sorta di carattere riparatore. Il marito non saprà mai nulla riguardo a quella figlia «non sua», fino agli ultimi istanti di vita cercherà di carpire la verità dal volto e dalle parole della figlia, ma inutilmente.

L’accesso alla classe sociale aristocratica da parte di Mastro don Gesualdo è mal visto dai parenti di lei e dagli altri nobili e, nel contempo, accresce la distanza dai vecchi amici più poveri. L’esito delle scelte del protagonista, allontanatosi spontaneamente dagli affetti e dall’ambiente di origine, è la solitudine: non avrà mai una comunicazione sincera e vera con la moglie, né tantomeno con la figlia illegittima Isabella, che ha ricevuto un’educazione nobiliare e si sente sempre più Trao e per niente Motta. Morta Bianca, proprio come è accaduto alla madre, anche Isabella si innamora di un cugino, ma dovrà ricorrere ad un matrimonio riparatore con il Duca di Leyra, un nobile senza soldi, interessato solo ai soldi del suocero. Mastro don Gesualdo firmerà molte cambiali per l’uso avventato dei soldi da parte del genero. Isabella e il Duca compreranno un palazzo a Palermo, ma non per questo mostreranno maggiore profusione affettiva: l’amore non si può comprare.

Ormai vedovo e totalmente solo, anche Mastro don Gesualdo si ammala e chiede di essere ospitato per gli ultimi mesi nel palazzo della figlia, convinto di poter rompere così la solitudine e sentire la vicinanza affettiva di qualcuno. Ma Isabella non avrà mai una confidenza personale con il padre neanche quando questi giunge nel suo palazzo ammalato di tumore. Il  padre vorrebbe ottenere la confessione della figlia, sapere da lei quello che Bianca deve pur averle detto sulla reale paternità, ma gli unici argomenti di cui concretamente riescono a parlare i due sono soldi ed eredità: in pratica la roba, quella che il critico Luigi Russo chiama la «nuova religione». Tra padre e figlia il divario rimane incolmabile, essendo lei un’aristocratica (così almeno si percepisce) e lui un poveretto.

Tristi sono le ultime pagine del romanzo in cui il protagonista in maniera cosciente percepisce di essere solo. Una notte, don Gesualdo sta male e chiede al servo di andare a chiamare la figlia. Il servo annuisce, ma torna a dormire, e non si accorgerà più tardi neppure del fatto che l’ammalato è ormai in agonia. Giunta l’alba, dispiaciuto più del fatto che non abbia dormito che della morte dell’anziano, il cameriere affacciandosi alla finestra dirà: «Mi è toccato a me questo regalo!»

Il povero Gesualdo si congeda dalla vita, solo, senza il conforto di alcuno, anzi vilipeso dai servi, che non tollerano che uno nato povero possa cambiare classe sociale. Questi sono i commenti alla sua morte: «Uno che faceva della notte giorno, e non si sapeva come pigliarlo, e non era contento mai […]. Pazienza servire quelli che realmente son nati meglio di noi… Basta, dei morti non si parla. […] Guardate le mani! […] Già, son le mani che hanno fatto la pappa!». Lo sguardo dei popolani è pieno di invidia. Quando il portinaio chiede se debba chiudere il portone, gli viene risposto: «Sicuro, eh! È roba di famiglia!»

Sembrano qui profeticamente compiersi le parole di Gesù quando avverte: «Quale vantaggio c’è che un uomo guadagni il mondo intero e perda la propria vita?». Mastro don Gesualdo è un vinto, ancor più che certi personaggi dei Malavoglia, perché è riuscito nei suoi progetti, ha portato a termine la scalata al successo, perdendo, però, tutto il resto, proprio a partire dagli affetti. Mi sovvengono le parole di Cesare Pavese che nel Mestiere di vivere scrive che c’è qualcosa di più triste di non raggiungere i propri progetti ed è raggiungerli. Il grande romanziere di Santo Stefano Belbo allude qui al fatto che non possiamo ottenere la felicità conseguendo i risultati che ci siamo prefissati. Mastro don Gesualdo e Mazzarò hanno un credo comune: la roba. La differenza tra i due è, però, grande, più di quanto potrebbe sembrare di primo acchito: Mazzarò non sa cosa siano Dio, l’amore, l’amicizia. Mastro don Gesualdo ha un parametro di riferimento diverso, perché lui ha conosciuto gli affetti veri. Quando uno ha incontrato persone e affetti veri, potrà far finta di dimenticarseli, ma nel cuore l’impatto degli incontri rimarrà sempre. Per questo anche in punto di morte il protagonista cercherà un rapporto sincero con la figlia.

Dopo Mastro don Gesualdo, Verga avrebbe voluto continuare il Ciclo dei vinti con la Duchessa di Leyra, ma l’autore si fermerà al primo capitolo e si rinchiuderà in un’aridità narrativa, simile a quella di Manzoni che era accomunato allo scrittore siciliano dalla stessa ansietà e brama di rappresentare il vero.