Marchionne al governo? Quasi quasi è un'idea sensata
Liquidare come uno scherzo d’estate la candidatura di Sergio Marchionne alla presidenza del Consiglio, lanciata da Berlusconi sarebbe un grosso errore. Eppure è italiano per quanto attiene alle scienze umane, ma nordamericano per quanto attiene all’economia, alla cultura d’impresa e alla sfera del sociale. Quasi quasi avremmo bisogno di uno proprio così.
Liquidare come uno scherzo d’estate la candidatura di Sergio Marchionne alla presidenza del Consiglio, lanciata da Berlusconi circa un mese fa, sarebbe a mio avviso un grosso errore. La reazione un po’ stizzita, che l’idea ha suscitato non solo tra i notabili del centrosinistra ma anche tra quelli del centrodestra, è una conferma di quanto l’idea sia buona. “Berlusconi è un grande”, ha commentato Marchionne, raggiunto l’8 luglio dai cronisti nei box del Gran premio d’Austria di Formula 1, “ha spiazzato tutti, ma non ci penso neanche di notte”.
Comprensibilmente spaventata da tale prospettiva, la stampa amica del Pd ha subito sottolineato quel “non ci penso neanche di notte”: un’affermazione che a mio avviso conta molto meno delle parole di apprezzamento che caratterizzano la prima parte della risposta. Marchionne non è certo un uomo così sprovveduto da gridare subito “sì, grazie!” a una proposta del genere, non foss’altro perché ciò lo targherebbe come il candidato del centrodestra. Il suo arrivo a palazzo Chigi avrebbe invece tutto il peso necessario solo se la sua candidatura fosse in certo modo super partes. La sua “filosofia” è senza dubbio liberale nel senso più vero della parola, e dunque di centrodestra, ma nel contesto italiano il solo sostegno delle forze ufficialmente di centrodestra non gli basterebbe. Il blocco sociale che autenticamente vuole l’ammodernamento radicale del sistema produttivo del nostro Paese è infatti trasversale rispetto all’attuale ordine costituito della politica.
Nato a Chieti nel 1952 da padre abruzzese e madre istriana esuli dall’Istria, dove suo nonno e un suo zio erano stati assassinati e gettati nelle foibe, ma formatosi a Toronto in Canada dove i suoi emigrarono quando il giovane Sergio aveva soltanto quattordici anni, Marchionne è un frutto tipico della emigrazione italiana del secondo dopoguerra: la nuova diaspora, molto diversa da quella dell’800 e del primo ‘900, che è all’origine dell’imponente fenomeno socio-culturale, purtroppo poco noto e sottovalutato in Italia, cui Piero Bassetti ha acutamente dato il nome di “italicità”.
Per “italicità” e per “italici” s’intende l’insieme di forse 200 milioni di persone che, pur vivendo fuori dei nostri confini, in vario modo si riconoscono della cultura e nel modo di vivere italiano. In particolare in Paesi anche ufficialmente multilingui e multiculturali come il Canada e l’Australia, se lo vogliono queste persone riescono pure ad essere, come appunto Marchionne, dei bilingui (nel suo caso anche dei trilingui) perfettamente bilanciati. Quando parla in italiano Marchionne sembra perciò a tutti gli effetti un italiano; quando invece parla in inglese o in francese sembra essere a tutti gli effetti un canadese. E un canadese tanto anglofono quanto francofono grazie al fatto di aver vissuto e studiato non solo a Toronto, che è anglofona, ma anche a Windsor, in quella parte dell’Ontario ai confini con il Québec dove le due lingue e le due culture s’intrecciano.
Marchionne appartiene insomma a quelle nuove generazioni di emigranti italiani cui la formazione scolastica, unita all’attuale facilità di accesso via satellite o via Internet ai media in lingua italiana, consente la piena integrazione nel Paese di residenza senza la perdita del legame culturale e linguistico colto con l’Italia. E’ una realtà che ebbi occasione di toccare con mano sia in Canada che in Australia; tra l’altro nel 2009 a Toronto dove mi accadde di avere notizie di prima mano sul giovane Marchionne da vecchi soci della sezione di Toronto dell’Associazione Nazionale Carabinieri di cui Marchionne, figlio di uno di loro, da studente aveva fatto da segretario.
Anche se perfettamente bilingui e di modi italiani, questi italo-canadesi, italo-australiani e così via sono italiani per quanto attiene alle scienze umane, ma canadesi, australiani e così via per tutto il resto. Per quanto attiene all’economia, alla cultura d’impresa, e alla sfera del sociale in genere, uno come Marchionne è tanto nordamericano quanto i suoi colleghi canadesi autoctoni.
Ci sono due documenti facilmente accessibili, e in lingua italiana, molto interessanti al riguardo: si tratta degli interventi di Marchionne al Meeting di Rimini nel 2010 e nel 2014, che anche oggi si possono raggiungere tanto nella versione audio-visiva quanto in trascrizione sul sito del Meeting stesso. Se la politica italiana ne avesse tenuto conto – osservo per inciso - la sorte della Fiat sarebbe stata magari diversa. A parte ciò da questi due interventi emerge la figura di un alto dirigente tanto italiano quanto del tutto libero dai vincoli dell’ordine costituito politico-economico del nostro Paese. Ed è appunto di una personalità del genere che abbiamo bisogno per liberarci dal pesante guscio in cui l’Italia venne racchiusa al tempo della Guerra fredda; e che, a oltre venticinque anni del crollo del muro di Berlino, nessuno è finora riuscito a rompere.