Mantegna: tra antico e moderno con al centro Cristo
La mostra torinese sintetizza il percorso di questo grande artista, che divenne ciò che è conoscendo i pittori del passato: la sua personalità, le circostanze e le caratteristiche dell’ambiente in cui operò, sono illuminate da ventisette lettere autografe. Nelle sue opere emergono l'amore per l'architettura e la centralità della fede.
Il titolo della mostra torinese, che ben sintetizza il percorso artistico di Mantegna, ci invita a conoscere il passato, l’ “antico”, per aprirci al nuovo, al “moderno”: proprio come ha fatto il pittore della corte mantovana, in un’epoca in cui tutta la stupefacente novità del Rinascimento affondava senza timore le sue radici nell’ammirazione della classicità, aprendosi con sorprendente creatività a prospettive inedite e fascinose.
Nato a Isola di Carturo (in provincia di Padova) nel 1431, Mantegna morì nel 1506 a Mantova, città che, grazie alla lungimiranza dei suoi signori, i Gonzaga, acquistò la propria fama attraverso l’opera del Nostro. Ci ha lasciato capolavori che testimoniano il suo singolare talento, che spaziano dal campo pittorico a quello architettonico, come negli affreschi della Camera picta (Camera degli sposi) del Castello di San Giorgio di Mantova, con gli incredibili scorci del suo oculo e le parti architettoniche virtuali; o la vertiginosa prospettiva del Cristo morto della Pinacoteca di Brera, ambedue icone del genio umano. A Torino incontriamo il maestro delle ardite sperimentazioni prospettiche e dello straordinario realismo nella resa della figura umana, ripercorrendo i suoi rapporti con la letteratura e l’architettura; e possiamo altresì ammirare opere di tema religioso che uniscono la maestria dell’artista a una profonda fede. Per comprenderne la centralità nel suo tempo, basti ricordare che si paragonava personalmente e veniva accostato dai contemporanei alla mitica figura di Apelle, il sommo pittore dell’antichità classica.
Andrea, figlio di Biagio, che pare vivesse vendendo panini sulle piazze di Padova, era di origini molto modeste. Tuttavia, già negli anni dell’adolescenza dimostrò straordinaria intelligenza e doti artistiche innate, che gli permisero di raggiungere fama e ricchezza. Nominato pittore di corte da Ludovico Gonzaga fu accolto a Mantova, dove lavorò per oltre quarant’anni, in una condizione di privilegio e di fama che assicurò anche prestigio duraturo alla dinastia dei Gonzaga. Fu pure al centro di una fitta rete di relazioni con i grandi del suo tempo: i Bellini di Venezia (sposò la sorella di Giovanni Bellini) e toscani della levatura di Donatello (delle cui sculture imitò volumi, consistenza e prospettive); o Leon Battista Alberti (sapiente architetto delle proporzioni perfette, con cui si confrontò sempre, ad esempio per la costruzione della sua casa mantovana, progettata in una prospettiva concentrica centralizzata, con uno splendido cortile rotondo, imitato poi da Raffaello). Si nutrì di dialoghi intensi con gli intellettuali umanisti del suo tempo, perfino con il potente mecenate Lorenzo de’ Medici.
In mostra non mancano le opere degli artisti suoi contemporanei, come gli stessi Bellini, e poi Donatello, Antonello da Messina e altri. La personalità di Mantegna, le circostanze e le caratteristiche dell’ambiente in cui operò, sono efficacemente illuminate da ventisette lettere autografe presenti in mostra: documentano il suo modo di procedere nell’elaborazione artistica e i rapporti cordiali ma non sempre idilliaci con i Gonzaga, soprattutto per la mancata puntualità dei pagamenti o per le incomprensioni. Ammirando dipinti e ritratti, scopriamo che l’”immaginazione” è all’origine del suo processo creativo: nella sua ultima lettera superstite, inviata a Isabella d’Este, egli stesso si riferisce alla propria “fantasia”. Per composizioni complesse faceva più disegni alternativi o passava da una versione all’altra. Era così importante per lui il disegno che fu il primo artista italiano a comprendere pienamente le potenzialità della nuova tecnica dell’incisione, che gli garantì guadagni supplementari e, grazie alle stampe, gli assicurò la diffusione della sua fama.
Certamente la figura di Cristo è centrale nella pittura di Mantegna, e spiace che da Brera non sia giunto il celebre Cristo morto che tutti conosciamo e ammiriamo. Non manca però, tra le opere esposte, l’inedita postura del Bambino nella splendida Sacra Famiglia con san Giovannino, che ci mostra Gesù e il piccolo Giovanni (che diventerà il Battista) in piedi, su un parapetto rotondo, che si rivolgono a chi osserva il dipinto con seria autorevolezza, mentre Giuseppe e Maria si accontentano di un ruolo ancillare. Invece la rappresentazione del Salvatore nell’opera Cristo, vista attraverso una finta cornice rossa, su cui spicca la scritta. “Straziatevi anche voi davanti all’immagine del mio volto”, ci colpisce per il forte richiamo che promana da un viso dallo sguardo malinconico ma profondamente sereno. Sguardo che ritroviamo nel più drammatico Ecce Homo, dove le torture subite sono evidenti nelle ferite della flagellazione, nelle gocce di sangue sulla fronte provocate dalla corona di spine e, per contrasto, spiccano le fisionomie arcigne e quasi stravolte dei suoi accusatori ebrei che lo circondano. Ci conforta infine la sconvolgente prospettiva della Resurrezione di Cristo, con quel grandioso scenario di roccia scura, visto di sotto in su: Il Risorto, ancora con il segno della sofferenza sul volto, scavalca con decisione il sepolcro e le figure scomposte dei soldati presenti ne colgono con sorpresa, ben evidenziata nei loro gesti di stupore, tutta la sorprendente eccezionalità. Sullo sfondo, il cielo s’illumina squarciando le tenebre.
Proprio nella Resurrezione citata emerge anche la grande passione di Mantegna per l’architettura con cui lui, geniale pittore, fu in relazione per tutta la vita. Il fascino della bella costruzione s’insinuò in lui fin da bambino, quando abitava nel castello di Padova, immagine–origine dei castelli fantastici che da adulto amerà inserire nei suoi paesaggi dipinti. Più tardi osservò con viva attenzione le “costruzioni” di Giotto, gli sfondi architettonici di Donatello e forse anche del suocero Jacopo Bellini. E arrivò a trasformare una camera mal illuminata e non molto accogliente nella meravigliosa Camera picta: sovrappose la sua visione illusionistica alle dimensioni reali della stanza, dandole luce con quell’apertura circolare virtuale, cioè finta, al centro della volta. Proprio come accade nel Pantheon. Ecco che si comprende come sia possibile “rivivere l’antico” costruendo “il moderno”. E a noi che ammiriamo la potenza fantastica ed espressiva di Mantegna resta, oltre che il fascino dei suoi volti e dei suoi “paesaggi-architetture”, l’indicazione di una strada, vera per l’arte come per la vita: quella di guardare al passato come fonte per immaginare e realizzare il nuovo.