Mani pulite, quel che i giornali non ammettono
A 25 anni da Tangentopoli gli occhi sono sempre puntati sui politici ancora corrotti, mentre i giudici celebrano la loro vittoria, come demiurghi che tutto possono. Ma manca un protagonista. E' la stampa che è stata utilizzata dalla magistratura per orientare le indagini. Una testimonianza di un cronista del Giornale svela una triste verità.
Troppo facile commemorare i 25 anni da Tangentopoli senza interrogarsi per un momento su se stessi. In questi giorni i giornali hanno fatto la gara a intervistare magistrati e politici sull’evento politico-giudiziario che ha sconvolto la Prima Repubblica. Operazione lodevole, certo. Ma miope. La stampa italiana ci ha abituato a questi voli pindarici e accusare i politici ancora corrotti come ha fatto Davigo è troppo comodo.
Troppo comodo per la stampa, che qualche cosa da dire ce l’avrebbe sul corto circuito mediatico giustizialista che ha animato l’inchiesta di Mani pulite. Perché se è vero che Tangentopoli ci ha consegnato l’attuale stagione della delegittimazione politica e dell’onnipotenza giudiziaria, è altrettanto vero che in questo walzer tra politica e giustizia, c’è un terzo incomodo che non viene mai citato, ma che nello svolgersi dei fatti è stato determinante.
Questo terzo incomodo siamo noi giornalisti. Bisogna riconoscere a Stefano Zurlo del Giornale di aver centrato il punto. Che non è solo e soltanto il fatto che l’inchiesta si fermò proprio davanti al portone di Botteghe oscure, graziando di fatto il Pci coperto di rubli, dalla catastrofe che gli altri del pentapartito stavano vivendo. Questo è vero ed è consegnato alla storia. Ma è anche vero che se le inchieste hanno preso pieghe piuttosto che altre, lo si deve non solo alle precise mire della magistratura, ma anche alle complicità, spesso ingenue, dei giornali.
Zurlo ha raccontato un episodio che lo ha visto personalmente coinvolto. Nel 1993 da giovane cronista di giudiziaria dell’Europeo si trovava a Palazzo di giustizia di Milano e incontrò uno degli “eroi” del pool di Mani pulite, quel Gerardo D’Ambrosio, che molti anni dopo, lasciata la magistratura, finì come deputato dei Ds in Parlamento. Ebbene: con strategica e fine sagacia, D’Ambrosio disse al cronista che ormai l’inchiesta di Mani Pulite poteva considerarsi conclusa. Appena un anno dopo il suo inizio, il magistrato mise così una pietra tombale sull’indagine che in appena un anno aveva decapitato con arresti e suicidi un sistema politico imprenditoriale che aveva lucrato con le tangenti.
Ebbene, quando uscì quell’intervista il pm Tiziana Parenti stava conducendo un filone parallelo dell’inchiesta, dedicato esclusivamente ai soldi che il Pci aveva preso dalla Russia comunista. Inchiesta che, salvo qualche arresto eccellente, come quello di Primo Greganti, non portò però a nulla di concreto. Anni dopo la Parenti, confidandosi con Zurlo, gli rivelò che quel titolo l’aveva danneggiata. Nel senso che aveva raffreddato gli animi. Il fatto che il pool considerasse l’inchiesta chiusa, congelò le speranze di poter trovare qualche reato anche degli alti papaveri dell’allora Pci. Perché venne meno il sostegno mediatico e popolare che dava animo alle altre indagini.
La morale è molto semplice. Non sono le inchieste a far tremare il palazzo, ma come queste vengono veicolate dalla stampa. Il fatto che l’inchiesta della Parenti non godette mai di buona stampa è sotto gli occhi di tutti. Ma è altrettanto vero che i magistrati del pool utilizzarono la stampa come braccio armato per raggiungere i loro scopi. In effetti andò proprio così. Orde di giornalisti assetati venivano arruolati e scagliati contro questo o quel politico grazie ad una diffusione di veline e di atti coperti da segreto che allora sembrava doverosa, mentre oggi rappresenta senza ombra di dubbio l’onta maggiore per una professione, quella giornalistica, che si gloria della propria indipendenza quando invece non si accorge di essere quasi sempre usata da altri.
Questi “altri” una volta erano i politici, che arruolavano centinaia di giornalisti nei giornali di partito finanziati dallo Stato. Ma nell’epoca di Mani Pulite il potere si trasferì all’ambito giudiziario, il quale, come tutti i poteri necessitava di sostegno mediatico. E il sostegno mediatico si ottiene imbeccando i cronisti, i quali, hanno solo un obiettivo: quello di dare le notizie. Se le notizie arrivano da un certo canale piuttosto che da un altro, non è il caso di stare lì a fare tante distinzioni.
Gli atti di indagine venivano fotocopiati in palese violazione delle regole e delle leggi e sbaglierebbe chi pensasse che questo fosse soltanto un modus operandi di una stagione precisa della nostra storia. No. Anche oggi, ancor oggi, il giornalista più che rimboccarsi le maniche per svolgere indagini su questo o quel fatto e ad un certo punto fermarsi perché la risposta agli interrogativi sollevati non spetta a lui, preferisce entrare nell’ufficio del magistrato il quale, se gli conviene, è ben lieto di passare i faldoni pronti per la pubblicazione. Ieri era così, oggi è uguale con il passaggio di pesanti file pdf dentro i quali si trovano le inchieste con le intercettazioni. Tutto proibito. Tutto concesso per un bene superiore.
E pazienza poi se alla fine, dopo molto tempo, si arriva all’assoluzione dell’imputato, sia esso politico, funzionario o imprenditore invischiato. Per questi ci sarà sempre uno spazio di due colonne di spalla per darne notizia, quando magari all’epoca dell’arresto aveva avuto “l’onore” della prima pagina. E si badi, questo sistema di complicità era così rodato che a distanza di anni era diventato un protocollo. Lo dimostra il fatto che nei corsi di giornalismo per giovani cronisti, ci fu chi per spiegare come venivano regolamentate le notizie sugli indagati raccontasse proprio quello che accadeva ai tempi di Mani Pulite.
Per rendere pubblica l'indagine su una persona la legge dice che questa deve essere informata. Ovviamente tutti pensano alla consegna dell’avviso di garanzia. Ma se questo non arriva? Non c’è problema, ci pensa il cronista, il quale avvicinandosi al politico indagato, gli fa la domandina: “Visto che è indagato ha qualcosa da dichiarare?”. Il poveretto veniva così a sapere dalla stampa dell’indagine sul suo conto e il cronista era a posto perché nel momento in cui aveva raggiunto lo sventurato, lo aveva informato lui stesso dell’indagine.
Questo accadeva e per certi versi accade anche oggi, dato che è molto raro che sia il malcapitato ad informare i giornali di essere indagato. Ma fa lo stesso. L’intreccio tra magistratura e stampa dura ancor oggi, in un modo o nell’altro. C’è chi ha un giornale apposta dove pubblicare gli atti che fanno comodo e che di fatto diventa una gazzetta delle procure e chi invece ha cronisti così in confidenza con il giudice tanto da chiedergli come interpretare le sentenze, come accadde per il giornalista che chiacchierava amabilmente con il giudice Esposito della sentenza Mediaset.
Insomma: così fan tutti, però attenzione a salvaguardare la facciata. Nel profluvio di corsi deontologici che l’Ordine obbliga ai cronisti di svolgere per l’aggiornamento professionale, questo corto circuito è sempre taciuto. Chissà perché? Forse perché il giornalista deve essere il cane da guardia del potere. E questo è senz’altro vero, ma il potere ormai non è più rappresentato dal politico, che è delegittimato e sputtanato più che un ex vip all’Isola dei famosi. Ormai il potere è nelle mani della giustizia. E si vede che il cane da guardia si sarà trasformato in un labrador giocherellone.