POLEMICA
Mancuso? E' anche un cattivo filosofo
Non solo dal punto di vista teologico, ma anche da quello filosofico
le tesi di Mancuso sono inconsistenti. Come quando nega
la verità naturale
dell'esistenza di Dio.
Cultura
06_01_2012
Come ben sanno i lettori della Bussola, Vito Mancuso si definisce un teologo cattolico eterodosso, impegnato nel tentativo di una rifondazione radicale della fede cattolica che dovrebbe essere – a suo giudizio – riproposta su basi razionali nuove, più adeguate alle esigenze della coscienza dell’uomo contemporaneo. Il suo libro più recente si intitola Io e Dio.
Dal punto di vista teologico su La Bussola Quotidiana già monsignor Antonio Livi ha autorevolmente spiegato, a proposito di Mancuso, che «se il teologo non accetta i dogmi della fede cattolica e si adopera piuttosto per ri-formularli, cambiarne il senso o addirittura negarli apertamente, allora egli abusa del suo titolo scientifico, la sua non è vera teologia. Chiunque può liberamente esporre le sue teorie su Dio e sulla religione, ma se uno non assume i dogmi come verità rivelata, non si deve presentare come un teologo ma come un filosofo».
Ciò premesso intendo di seguito criticare alcune delle argomentazioni proposte da Mancuso nella prima parte del suo testo (in particolare nel capitolo III), quella di matrice più evidentemente filosofica, incentrata sulla critica alle dimostrazioni razionali dell’esistenza di Dio.
Com'è noto, alcuni grandi filosofi (per esempio Tommaso d’Aquino) e il Magistero della Chiesa Cattolica affermano che esistono alcune verità naturali che sono conoscibili con certezza dalla ragione umana anche senza bisogno di fare un atto di fede: sono delle verità universali che fungono da preambula fidei, ossia da premesse razionali dell’atto di fede. La prima e fondamentale tra queste verità di ragione naturale è appunto l’esistenza di Dio.
Mancuso intende criticare questa posizione; a suo avviso gli argomenti elaborati nella plurisecolare tradizione filosofica e teologica (che egli prende in considerazione attraverso una sintetica rassegna) non avrebbero lo statuto di dimostrazioni, ossia di evidenze razionali, ma solo quello di argomentazioni persuasive (in quanto tali non immuni dal rischio di essere il prodotto di «ingenuità, proiezioni, ignoranza, paura di vivere» (p. 96). Attribuire alle argomentazioni razionali lo statuto di “prove” significherebbe infatti pretendere di esaurire il mistero di Dio, riducendolo alla misura delle capacità di conoscenza della ragione umana.
Inoltre – sostiene Mancuso nell’ultima parte del capitolo, quella costruita sul dialogo immaginario con il Cardinale Ruini – nessuna delle prove proposte dalla tradizione è in grado di provare l’esistenza del Dio personale, il Dio della fede cattolica.
In sintesi, la critica di Mancuso riguarda un duplice piano: quello epistemico (lo statuto epistemologico delle prove) e quello dei contenuti, incentrato sul motivo dell’incommensurabilità di Dio e della non dimostrabilità dei suoi attribuiti.
Per quanto riguarda il primo aspetto Mancuso espressamente si rifà alla posizione antimetafisica kantiana. E lo fa, sia detto per inciso, ripetendo gli errori di Kant: ad esempio nella lettura che Mancuso fa della quinta via di Tommaso, una lettura che ne misconosce le differenze di impostazione rispetto alla prova teleologica criticata da Kant. Com'è noto, infatti, Tommaso inferisce l’esistenza di un principio ordinatore non dalla constatazione del finalismo dell’universo nel suo complesso («dall’ordine finalizzato nella natura», p. 87), una constatazione che potrebbe essere il frutto di una lettura aprioristica da parte della mente umana, come ha supposto Kant, ma dall’osservazione del comportamento finalizzato di alcuni particolari enti non dotati di ragione, il che rende – paradossalmente – più “scientifica” e “moderna” la posizione del filosofo e teologo medievale rispetto a quella del filosofo illuminista che Mancuso vorrebbe riproporre.
Ma è soprattutto il motivo dell’incommensurabilità di Dio che rappresenta il punto più debole dell’argomentazione di Mancuso, in cui viene sovrapposto il discorso sull’essenza o natura di Dio a quello sull’esistenza di Dio, come se si trattasse di un'unica verità di ragione.
Certamente la ragione umana non è in grado di “comprendere” Dio, ossia di rivelarne l’essenza ultima, che rimane un mistero inconoscibile per l’intelletto umano.
Però ciò non priva la ragione umana della capacità di comprendere alcune verità su Dio: prima fra tutte quella relativa alla sua esistenza.
Attraverso l’argomentazione razionale (che procede dall’osservazione del mondo od anche dalla riflessione su se stessi) è infatti possibile inferire l’esistenza necessaria di un principio ordinatore dell’universo, di una causa prima all’origine del mutamento, di un sommo bene perfetto, causa di ogni perfezione, di un ente necessario, di una causa incausata, e così via.
Certamente queste conclusioni razionali non conducono alla definitiva chiarificazione intellettuale dell’essenza di Dio, all’esaurimento del Mistero.
Proprio per questo il Magistero della Chiesa distingue (ed afferma) entrambe le verità: quella della conoscibilità razionale dell’esistenza di Dio e quella dell’inconoscibilità della sua essenza, che trascende il contenuto di ogni intelligenza.
Le due verità, distinte ma compossibili e complementari, sono contrapposte da Mancuso come contraddittorie: egli oppone dunque la via autentica della mistica fondata sul riconoscimento dell’ineffabilità di Dio – come si evince dal riferimento a S. Giovanni della Croce (p. 34) – alle esorbitanti pretese «autoritarie» seguite dalla teologia tradizionale dei preambula fidei. Dimostrare l’esistenza di Dio significherebbe cioè, secondo Mancuso, pretendere di comprendere Dio, esaurirne il Mistero.
E’ vero piuttosto il contrario di quanto afferma l’autore: una prassi mistica presuppone la verità di una previa metafisica sottostante. La stessa intuizione della sovraeminenza di Dio, della sua essenziale trascendenza rispetto a qualunque realtà creata (da cui si sviluppa il modo di argomentare caratteristico della teologia negativa) presuppone infatti la previa intuizione di una qualche verità sul Mistero di Dio (in primis: la certezza della sua esistenza), sebbene il linguaggio umano possa poi incontrare dei limiti insuperabili nell’espressione del contenuto positivo di tali intuizioni.
Per contro, una mistica totalmente slegata dal riconoscimento di alcune salde verità razionali rischia di declinare nel puro irrazionalismo (e faticherebbe a distinguersi da tante forme di sincretismo così diffuse anche oggi, nell’ambito di quel variegato fenomeno di rinascita religiosa contemporanea di cui lo stesso autore non omette di criticare l’essenziale ambiguità).
Infine, anche l’ulteriore obiezione secondo cui le prove tradizionali non conducono all’affermazione dell’esistenza di un Dio personale non pare concludente: infatti la dimostrazione dell’esistenza di un Dio personale richiede ulteriori passaggi argomentativi (che Mancuso omette di proporre) desunti però sempre a partire da quelle prime verità fondamentali rappresentate dai preambula.
Mancuso sembra riconoscere «tracce dell’esistenza di un Dio personale» (p. 105) soltanto all’interno delle argomentazioni delle prove antropologiche e, in particolare, fra le argomentazioni della prova etica, che afferma che l’esistenza di un fondamento ultimo del valore morale e dell’obbligazione è un’esigenza razionale; ma si tratta, secondo Mancuso di «tracce così nascoste che nessuno le vede» (p. 105).
Anche questa obiezione non sembra cogliere nel segno: essa muove infatti sul piano dell’efficacia pratica della dimostrazione, ma non può inficiarne il valore teoretico.
Un’ultima considerazione relativa al dato del successo editoriale che i saggi di Mancuso riscuotono. Da un lato, diversamente da molti teologi e filosofi che si compiacciono di scrivere in modo oscuro e/o che non sono capaci di fare divulgazione e parlano solo agli addetti ai lavori, Mancuso si esprime invece in forma chiara e di agevole lettura, il che rappresenta un’indiscutibile qualità. Dall’altro il suo successo credo possa essere un dato positivo: testimonia il fatto che anche in quest’epoca contemporanea di conclamata crisi della filosofia la posizione delle domande ultime corrisponde ad un’ineliminabile esigenza di ricerca della ragione umana. Che non è moderna, antica o contemporanea, bensì semplicemente ragione universale.