Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
San Giacomo della Marca a cura di Ermes Dovico

LIBERTA RELIGIOSA /17

Malesia, il paese che teme la Bibbia

Nello Stato asiatico le Scritture in lingua locale incorrono in continui sequestri. L'Islam è la religione di stato e i cristiani sono discriminati.

Attualità 09_07_2011
malesia

Solo per le elezioni dello scorso mese di aprile, il Governo della Malesia ha autorizzato la stampa delle Bibbie in tutte le lingue, compreso il malese. Come ha riferito nel marzo scorso l'agenzia AsiaNews, la comunità cristiana della Malesia ha criticato aspramente la decisione delle autorità del Paese asiatico di porre il sigillo ufficiale del Ministero degli Interni su circa 5.100 esemplari della Bibbia in lingua malay, importati dall'Indonesia per conto della Società Biblica della Malesia (BSM) e bloccati dal 20 marzo 2009 nel porto di Klang, nello Stato di Selangor (Malesia Occidentale o Peninsulare).

Anche se la BSM non aveva dato alcun permesso, il Ministero ha informato l'organizzazione di aver provveduto alla stampigliatura sulla copertina di ogni copia del seguente testo: "Avvertenza: questo 'Al Kitab Berita Baik' è solo per l’uso dei cristiani. Per ordine del ministro degli Interni". Secondo le autorità malesi, "timbrare" e numerare ogni esemplare per garantirne la "rintracciabilità" è l'unica via per lo sblocco delle copie della Sacra Scrittura o "Al Kitab" ("Lo scritto" o "Il libro" in arabo e in malay). Come riporta l’ Agenzia Zenit del 16 marzo scorso, la reazione della BSM è stata questa: "La Società Biblica della Malesia è preoccupata per il modo in cui la Bibbia cristiana viene deturpata da parte di non cristiani e sigillata con parole che i cristiani non hanno accettato o consentito. In quanto libro sacro dei cristiani, la Bibbia va trattata con il dovuto rispetto, consultando i competenti organi rappresentativi cristiani prima di inserire qualsiasi testo esterno nelle Bibbie".

Netto è stato anche il rifiuto da parte della Federazione Cristiana della Malesia (CFM), l'organizzazione fondata nel 1985 che raggruppa la quasi totalità delle denominazioni cristiane del Paese, inclusa la Conferenza dei Vescovi Cattolici della Malesia. "Ogni persona che rispetta le Sacre Scritture sarebbe inorridita da questa azione. Non accetteremo mai una sconsacrazione della Bibbia, perché la parola di Dio è sacra per noi", afferma un comunicato del presidente della CFM, Ng Moon Hing (“AsiaNews”, 18 marzo). Per il vescovo anglicano della Malesia occidentale, l'intervento del Ministero degli Interni fa capire che la Bibbia in lingua Bahasa (la lingua standard delle Malesia) è "ora trattata come un prodotto controllato e la parola di Dio è fatta oggetto di controllo da parte dell’uomo. Questo è pienamente offensivo per i cristiani".

Già nel gennaio scorso
avvenne un altro "sequestro" di 30mila copie della Bibbia, importati sempre dall'Indonesia per conto della sezione locale di “Gideons International” e bloccati nel porto di Kuching, nello Stato del Sarawak (Borneo nordoccidentale), perché "contenevano parole che si trovano anche nel Corano" (“Compass Direct News”, 14 marzo). Gli esemplari del Nuovo Testamento, dei Salmi e dei Proverbi dovevano essere distribuiti in alcune aree cristiane del Sarawak. Come ricordato da “Compass”, quasi due terzi dei cristiani della Malesia (il 64%) appartengono alla popolazione indigena degli Stati di Sabah e Sarawak, che come lingua corrente utilizzano il malay. Il Vescovo Ng, presidente del CFM, ha denunciato così questi accadimenti: "Il CFM è fortemente deluso, stufo e furioso per la ripetuta detenzione di Bibbie scritte nella nostra lingua nazionale", si legge in un comunicato diffuso il 10 marzo (“Compass”, 14 marzo). "Sembrerebbe - così continua il testo dell'organismo interconfessionale - che le autorità stiano portando avanti un continuo, subdolo e sistematico programma contro i cristiani nella Malesia, negando loro l’accesso alla Bibbia (in malay)".

All'origine dei ripetuti blocchi
delle Bibbie in lingua malay (non accade infatti con le copie nelle altre lingue, ad esempio inglese) è la questione dell'uso da parte cristiana della parola "Allah" per indicare o nominare Dio, scoppiata il 7 gennaio del 2009, quando il Ministero degli Interni vietò all'Arcidiocesi di Kuala Lumpur di usare il termine nella sezione in lingua malay del suo settimanale, l'”Herald Weekly”. Secondo il Ministero, l'uso del termine da parte non musulmana rischierebbe infatti di "creare confusione e danneggiare l’ordine pubblico" (AsiaNews, 25 febbraio 2009) ed inoltre potrebbe indurre i musulmani a convertirsi al cristianesimo. Un ricorso contro il divieto presentato dall'Arcivescovo di Kuala Lumpur, monsignor Tan Sri Murphy Pakiam, è stato accolto il 31 dicembre dello stesso anno dall'Alta Corte, la quale ha confermato il diritto costituzionale dei cristiani ad usare la parola. Ad impedire l'applicazione della sentenza, che ha provocato violente proteste da parte musulmana (una decina di Chiese attaccate nel gennaio 2010), è la decisione del Ministero di impugnare il verdetto emesso dal giudice Lau Bee Lan.

Le fonti confermano
infatti che i cristiani della Malesia usavano la parola "Allah" ben prima della nascita dello Stato federale della Malesia, avvenuta nel 1963. Un dizionario latino-malese del '600 dimostra senza equivoci l'uso del termine in senso cristiano. Si tratta del "Dictionarium Malaicum-Latinum" e "Latinum-Malaicum" pubblicato nel lontano 1631 a Roma e ristampato di recente proprio per sostenere la posizione della Chiesa cattolica. Inoltre, come ha spiegato in un'intervista all’ Agenzia Zenit (6 gennaio 2010) il Vescovo della diocesi cattolica di Melaka-Johor (Malesia Peninsulare), monsignor Paul Tan Chee Ing, "nel Sacro Corano, alla Sura 5,69 e alla Sura 22,17, anzi più esplicitamente alla Sura 2,62 si dice che gli ebrei, i cristiani, i sabei e i musulmani hanno il culto di Allah". "Come può dunque – ha detto il presule - un musulmano andare contro il suo Sacro Corano? Non è possibile. E se lo fa è per mera ignoranza o per ragioni di opportunità politica". Per monsignor Tan, "è solo in tempi recenti che non solo 'Allah' ma anche altre parole e frasi di origine araba - ad esempio 'rasul', 'baitullah' ecc. - sono state vietate ai fedeli non musulmani. Non è allora una battaglia linguistica. È invece una battaglia per i voti, dunque politica".

In Malesia – dove esistono due sistemi giuridici, quello islamico e quello basato sul diritto consuetudinario di matrice anglosassone - l’Islam è la religione di Stato, ma la legge islamica dovrebbe valere solo per i musulmani, anche se si sono verificati casi in cui ha pericolosamente prevaricato la legge comune e la libertà personale di scegliere la propria religione, come sancito dalla Costituzione. Emblematico – lo riporta il rapporto dell’Istituto di diritto pontificio “Aiuto alla Chiesa che soffre” - il caso di Banggarma Subramaniam, giovane donna di 27 anni, che nel 2001 si è sposata con un uomo di religione indù. Il National registration department non le ha permesso di registrare il suo matrimonio, perché è schedata come musulmana. La ragazza, tuttavia, ha dichiarato di essere stata di religione indù per la maggior parte della propria vita, anche se all’età di sette anni i funzionari del welfare l’avevano registrata come musulmana. Alla ragazza è stato detto che deve recarsi alla Corte Syariah per intraprendere tutte le procedure previste dalla legge islamica in caso di abbandono della religione musulmana. P. Thomas Philips, presidente del “Malaysian consultative council of Buddhism, Christianity, Hinduism, Sikhism and Taoism”, ha protestato in quanto la Corte Syariah ha giurisdizione solamente sulle persone di fede islamica, mentre Banggarma Subramaniam dice di essere un’indù” e non dovrebbe dunque passare attraverso nessuna procedura.

La Costituzione della Malesia garantisce la libertà di scegliere e professare la propria religione. Nonostante questo, il governo appoggia, anche economicamente, la religione islamica e cerca di limitare la libertà delle altre confessioni religiose. È durata tre anni la battaglia del settimanale cattolico “Herald” contro il governo per ottenere il permesso di utilizzare la parola “Allah” in riferimento al Dio cristiano. Nel 2007 il governo aveva vietato l’utilizzo della parola “Allah” “da parte di non mussulmani” perché “può far crescere tensioni e creare confusione fra i musulmani del Paese”. L’arcivescovo della capitale, Monsignor Murphy Pakiam, aveva reagito citando in tribunale il governo. L’arcidiocesi di Kuala Lumpur rivendica il diritto di usare la parola “Allah”, rifacendosi all’art. 10 della Costituzione (libertà d’espressione) e all’art. 11 (libertà di praticare la propria religione). Di fatto, i cristiani hanno definito “Dio” con la parola “Allah” perfino prima che esistesse lo stato malaysiano; senza contare che in lingua malese esiste solo questa parola per nominare Dio. A febbraio 2009, l’”Herald” ha subito minacce e pressioni da parte di giornali musulmani, con l’accusa di voler rovinare la nazione con il suo proselitismo. Dopo mesi di tensioni, il 31 dicembre 2009 l’Alta Corte di Kuala Lumpur ha autorizzato il settimanale cattolico “Herald” a usare la parola “Allah”, nella lingua malese, in riferimento al Dio cristiano. Il governo, in risposta, ha annunciato che farà ricorso, pur invitando i fedeli alla calma.

La settimana dopo
la sentenza dell’Alta Corte, la chiesa cattolica dell’Assunzione a Petaling Jaya è stata attaccata da alcuni musulmani che hanno lanciato al suo interno una bomba incendiaria. L’8 luglio, due cattolici hanno denunciato il mensile “Al-Islam” per un reportage dedicato a presunte conversioni forzate al cristianesimo. Due giornalisti musulmani si sono finti cattolici, hanno partecipato a due messe e ricevuto la comunione dissacrando l’ostia di cui hanno anche pubblicato un immagine. I due non hanno raccolto prove a sostegno della loro tesi, ma accusano i cattolici di usare la parola Allah per definire Dio durante le celebrazioni in lingua locale. Interpellato da “AsiaNews”, Padre Lawrence Andrew, direttore dell’”Herald”, afferma che “la vicenda di ‘Al-islam’ ha umiliato i cattolici della Malaysia ed è una violazione dei diritti dei cristiani oltre che una sfida alla Costituzione federale che sancisce la libertà di religione”. In seguito alla disputa sull’uso del termine “Allah”, una settimana dopo la sentenza del 31 dicembre 2009, sono state attaccate tre Chiese protestanti. In particolare, un’esplosione ha danneggiato gli uffici amministrativi della Metro Tabernacle Church, una Chiesa protestante di Kuala Lumpur.

A luglio, sono stati arrestati nove cristiani con l’accusa di voler convertire alcuni studenti musulmani della University Putra Malaysia, a Serdang. In Malaysia il proselitismo è proibito per legge e nella maggior parte dei distretti è punito con la prigione. I nove ragazzi sono stati accusati di aver distribuito volantini e opuscoli sul cristianesimo. A ottobre, la polizia malaysiana ha sequestrato oltre 15mila bibbie perché nel testo esse contengono il termine “Allah” per riferirsi a Dio. Le bibbie erano destinate ai cristiani che usano la lingua malese, sia nella Malesia peninsulare che negli stati di Sabah e Sarawak. Il tribunale islamico non ha mai riconosciuto la conversione di membri dell’etnia malay, considerati per legge come musulmani, ad altre religioni. La shari’a proibisce la conversione di qualunque musulmano ad altre religioni, anche se di etnia differente da quella malay.

L’unico caso di conversione avvenuto nel 2009 è quello di Tan Ean Huang,una donna originariamente buddista. Nel 2006 ha chiesto di tornare alla propria religione dopo che era stata registrata come musulmana per aver sposato un iraniano islamico. Dopo essere stata abbandonata dal marito, ha chiesto inutilmente di tornare al Buddismo. Solo dopo aver fatto ricorso, il 19 marzo 2009, la Corte d’appello del tribunale islamico le ha permesso di tornare alla sua fede, dopo tre anni dalla richiesta. In aprile, il governo ha annunciato che 29 templi indù dovevano essere spostati entro 30 giorni, pena la loro distruzione, nonostante che la maggior parte di questi fosse stata costruita su suolo privato.

Riferisce “Aiuto alla Chiesa che soffre” che negli anni scorsi il Governo ha bollato come “deviate” 56 interpretazioni dell’Islam, tra cui quelle di gruppi quali Ahmadiyya, Islamailiah, Shi’a e Baha’i. Nel 2009, ha limitato i visti a membri stranieri del clero musulmano per impedire che entrassero nel Paese, in quanto “militanti” di interpretazioni “deviate”dell’Islam.