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Malavoglia, il viaggio senza ritorno di 'Ntoni

Verga non ha voluto concludere il romanzo in chiave melodrammatica con la tristezza patetica del giovane ‘Ntoni prima della partenza, ma ha deciso di focalizzare l’attenzione su un personaggio del tutto secondario come Rocco Spatu, forse per trasmettere l’impressione di quella normalità e quotidianità che il ragazzo ha rifiutato. 

Cultura 09_07_2017

La storia dei Malavoglia è ormai giunta al termine. Molti personaggi sono morti, altri sono partiti dimenticando il passato e la tradizione e perdendosi alla ricerca di una condizione economica migliore: è il caso di Lia e del giovane ‘Ntoni. Solo Mena e Alessi sono rimasti ancorati ai valori veicolati dal nonno. Alessi si è sposato, mentre Mena ha deciso di rinunciare per sempre a costituire una nuova famiglia, ora che tutti conoscono la storia della sorella Lia. Le malefatte dei parenti incidono profondamente anche sul destino degli altri familiari determinandone la sorte in modo irreversibile.

La vita dell’uomo permette viaggi, ma non ritorni. Lo comprendono in maniera differente il nonno e il giovane ‘Ntoni.

Il primo viene portato in ospedale e riceve le visite dei parenti desiderando ritornare alla casa del nespolo, ormai riscattata, per morire nei luoghi dove è sempre vissuto. Un giorno, però, i Malavoglia tornano «col carro di compar Alfio per riprendersi il nonno», ma non lo trovano più. Aveva intrapreso «quel viaggio lontano, più lontano di Trieste e d’Alessandria d’Egitto, dal quale non si ritorna più». Da quel momento in poi la tristezza nei nipoti è tale che ogniqualvolta il discorso cade nei ricordi del nonno cala il silenzio.

Il giovane ‘Ntoni decide, invece, di ritornare a casa una sera, per non essere visto dai compaesani. Sentiamo direttamente dalle parole di Verga il racconto di questo nòstos: «Una sera, tardi, il cane si mise ad abbaiare dietro l’uscio del cortile, e lo stesso Alessi, che andò ad aprire, non riconobbe ’Ntoni il quale tornava colla sporta sotto il braccio, tanto era mutato, coperto di polvere, e colla barba lunga. Come fu entrato e si fu messo a sedere in un cantuccio, non osavano quasi fargli festa. Ei non sembrava più quello, e andava guardando in giro le pareti, come non le avesse mai viste; fino il cane gli abbaiava, ché non l’aveva conosciuto mai. Gli misero fra le gambe la scodella, perché aveva fame e sete, ed egli mangiò in silenzio la minestra che gli diedero, come non avesse visto grazia di Dio da otto giorni, col naso nel piatto; ma gli altri non avevano fame, tanto avevano il cuore serrato. Poi ’Ntoni, quando si fu sfamato e riposato alquanto, prese la sua sporta e si alzò per andarsene».

La dimensione è epica, assurge a valore universale ed emblematico della storia di un popolo: il giovane ‘Ntoni, che ha tradito l’ideale dell’ostrica, non potrà più far ritorno a casa. Il silenzio cala a tavola. Uscito dal carcere, ‘Ntoni deve scoprire che ormai tutto è cambiato, tante delle persone care non ci sono più, la mamma, il nonno, la sorella. Quei momenti che nell’adolescenza lo irritavano o infastidivano lo riempiono ora di nostalgia: le serate in cui tutta la famiglia si ritrovava a raccontare storie non possono più ritornare. ‘Ntoni si è pentito, a distanza di cinque anni ha compreso di aver sbagliato e che non è possibile un futuro diverso lontano da Aci Trezza. Eppure lui, che ha scelto la strada dell’evasione, ora è un escluso. Queste sono le sue parole: «Io devo andarmene. Là c’era il letto della mamma, che lei inzuppava tutto di lagrime quando volevo andarmene. Ti rammenti le belle chiacchierate che si facevano la sera, mentre si salavano le acciughe? e la Nunziata che spiegava gli indovinelli? e la mamma, e la Lia, tutti lì, al chiaro di luna, che si sentiva chiacchierare per tutto il paese, come fossimo tutti una famiglia? Anch’io allora non sapevo nulla, e qui non volevo starci, ma ora che so ogni cosa devo andarmene». Il giovane ‘Ntoni è uno dei tanti vinti dal progresso: non c’è speranza al di là dello scoglio dove l’ostrica si è attaccata, non c’è compagnia umana fuori da quella che la sorte ci ha assegnato nell’ambiente in cui siamo nati.

La scena sembra anticipare l’impossibilità di un ritorno, raccontata nell’ultimo romanzo La luna e i falò di Cesare Pavese (pubblicato nel 1950). Nella vita si prende consapevolezza di sé e della realtà. «Ripeness is all» ovvero «la maturità è tutto». La maturità dell’uomo è la consapevolezza della vita, l’accettazione di un destino che porta con sé la morte, la perdita delle persone care, della giovinezza. Tornato dall’America dopo la liberazione e dopo aver fatto fortuna, anche il protagonista de La luna e i falò Anguilla cerca invano nel paese natio delle Langhe il proprio passato e i compagni cari dell’infanzia. Molti, infatti, sono morti. Ora che è tornato capisce che «un paese vuol dire non essere mai soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo che anche quando non ci sei resta ad aspettarti», «un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via». Anguilla non può restare, deve ripartire, ora che sa e ha capito. Il momentaneo ritorno non lascia che tanta tristezza e malinconia.

Eccoci arrivati alla scena finale. ‘Ntoni chiede perdono, saluta tutti e si ferma in mezzo alla piazza «scura e deserta», solo, ad ascoltare il mare di Aci Trezza che gli brontola «la solita storia». La tecnica dell’impersonalità di Verga è ben lungi dal significare una rappresentazione scientifica ed oggettiva di quel mondo. Basti riflettere sul fatto che la conclusione del romanzo è una descrizione malinconica delle ultime ore della notte che lasciano il posto all’alba, descrizione che avviene attraverso il filtro dello sguardo del giovane che vede anche il mare rivoltarglisi contro. Il giovane rimane in attesa dell’alba, all’ascolto dei primi rumori del paese.

Per lui la vita è cambiata per sempre, mentre in quel paese che lui ha trovato così mutato per sé tutta la vita sembra scorrere naturalmente come se gli anni non avessero avuto la loro influenza. La frase finale è emblematica: «Il primo di tutti a cominciar la sua giornata è stato Rocco Spatu». Molteplici sono state le interpretazioni critiche di questa frase conclusiva. Crediamo che quella più attendibile riconosca una contrapposizione tra la realtà immutabile e senza tempo dei pescatori di Aci Trezza e i personaggi che si sono lasciati conquistare dalla brama del progresso e del cambiamento. Verga non ha voluto concludere il romanzo in chiave melodrammatica con la tristezza patetica del giovane ‘Ntoni prima della partenza, ma ha deciso di focalizzare l’attenzione su un personaggio del tutto secondario come Rocco Spatu, forse per trasmettere l’impressione di quella normalità e quotidianità che il ragazzo ha rifiutato.