Mai dire "Rohingya" e fiducia in Aung San Suu Kyi
Il cardinale Charles Maung Bo invita alla prudenza. Nella prossima visita di Papa Francesco al Myanmar, teme che scoppi una reazione nazionalista in caso di denuncia della pulizia etnica sulla minoranza musulmana dei Rohingya. E prega di non sparare su Aung San Suu Kyi che agisce in buona fede, ma ha le mani legate.
Per Antonio Guterres, segretario generale dell’Onu, la crisi dei rifugiati Rohingya musulmani è “un incubo per i diritti umani”. E’ la prima riunione del Consiglio di Sicurezza negli ultimi otto anni che riguarda il Myanmar. Nemmeno Nikki Haley, ambasciatrice degli Usa, ha lesinato attacchi, benché l'amministrazione Trump passi per "anti-musulmana": “Non dobbiamo aver paura di chiamare le azioni delle autorità birmane come ciò che sembrano essere: una brutale, prolungata campagna per ripulire il Paese da una minoranza etnica”. Vuole sanzioni militari (niente armi straniere destinate alle forze di sicurezza del Myanmar) e chiede al governo di punire i militari responsabili dei massacri. Dalla Chiesa del Myanmar, invece, arrivano dichiarazioni più prudenti a nome della piccola minoranza cristiana, in vista della visita di Papa Francesco, prevista per gli ultimi tre giorni di novembre. Nessuno sconto sulla richiesta di giustizia, nessun negazionismo: solo un invito alla prudenza. E un rinnovo della fiducia al premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, che sta agendo in buona fede.
E’ quanto si evince dalle interviste rilasciate ieri alla stampa internazionale del cardinale Charles Maung Bo. Il prelato è una persona insospettabile. Non può essere considerato in alcun modo colluso con i militari, dato che per decenni si è udita la sua voce solitaria contro la violazione dei diritti umani contro i Rohingya e le altre minoranze etniche in Birmania/Myanmar. Il cardinale afferma che il Papa, nel suo prossimo viaggio prenderà in considerazione tutti i casi di violazione massiccia dei diritti umani, a partire dall’esodo di circa mezzo milione di Rohingya musulmani dallo stato sudorientale di Rakhine e anche dei 120mila cittadini di etnia Kachin e Karen, soprattutto cristiani ospiti dei campi rifugiati negli stati di Kachin e Shan, o lungo il confine con la Tailandia. Tuttavia sa che parlarne, soprattutto parlare della crisi dei Rohingya, può essere controproducente e dannoso per loro stessi. Anche le parole pronunciate dal Papa nell’Angelus del 27 agosto, quando il pontefice ha parlato per la prima volta in difesa dei Rohingya, hanno avuto un impatto immediato sui birmani, alimentando la reazione nazionalista della maggioranza buddista. In un rapporto a Vatican Insider, il cardinale Bo spiega quali potrebbero essere le difficoltà del prossimo viaggio apostolico e gli argomenti che è meglio evitare. “Ashin Wirathu, monaco che guida il movimento buddista Ma Ba Tha, ha bollato la visita papale come ‘una visita politica’” – spiega il porporato. Per questo, il Papa dovrebbe evitare anche di usare lo stesso termine “Rohingya”, perché per i nazionalisti il popolo apolide che vive nel Sudovest del paese è bengalese. Mentre è lecito “parlare dei diritti umanitari dei musulmani che soffrono nello stato di Rakhine, della necessità di una soluzione pacifica e duratura, dell'adozione di misure non violente e dell'urgenza di una cooperazione regionale”.
Nella sua intervista rilasciata ieri a Uca News, il cardinal Bo si dice comunque sicuro che il Papa parlerà della crisi del Rakhine in termini che risultino accettabili alle autorità del Myanmar. “Il motto del Papa è ‘amore e pace’. Per amore si intende quello tra i vari gruppi etnici e religiosi, fra la maggioranza buddista e le minoranze religiose. Per pace si intende la fine della pluri decennale guerra civile che ancora riguarda il Nord del paese”. Cioè le regioni abitate dalle minoranze cristiane. “Il problema dei Rohingya è certamente grave – aggiunge Charles Maung Bo – ma si deve considerare la situazione nel suo complesso e i problemi di tutti i popoli. (…) Ridurre la sua visita a uno solo dei vari problemi – come si aspetta l’opinione pubblica interna e internazionale - sarebbe fuorviante e potrebbe risultare controproducente”. Timori anche per le dichiarazioni che il Papa potrebbe fare sui militari. “Criticare il governo e i militari potrebbe essere controproducente”, perché la Chiesa locale potrebbe rimanere esposta alla pressione di militari, governo e maggioranza buddista.
Grande attenzione anche alla figura di Aung San Suu Kyi, Nobel per la Pace al governo (in veste di ministro degli Esteri e primo ministro “di fatto” del Myanmar), che da tutto il mese sta subendo un fuoco incrociato di critiche da parte dei governi occidentali, delle Ong e degli altri premi Nobel per la Pace. Aung San Suu Kyi è accusata, niente meno, che di coprire i crimini dei militari, evitando di denunciare la pulizia etnica in corso. “Ci sono due governi paralleli – spiega monsignor Bo a Uca News, facendo notare che, con la riforma costituzionale del 2008, la giunta militare si è ritagliata per sé il grosso del potere decisionale e una rappresentanza fissa in parlamento, lasciando al governo civile poche decisioni all’infuori della politica economica. Ma è il governo civile, però, che è legalmente responsabile. Quindi i militari commettono i crimini e Aung San Suu Kyi ci deve mettere la faccia, soprattutto all’estero. Se alza troppo la voce, rischia di essere defenestrata da un altro golpe. Tuttavia, afferma il cardinale, “la sua integrità e il suo impegno sono al di sopra di ogni sospetto”. E assicura che abbia imboccato la giusta direzione: “ha costituito una apposita commissione di lavoro - scrive Bo a Vatican Insider - per attuare le raccomandazioni della Commissione Kofi Annan: iniziativa positiva che merita stima e collaborazione della comunità internazionale”
“Tutti noi dobbiamo passare da un passato ferito a un futuro di guarigione. Lasciate che la lezione del passato illumini il nostro futuro. La pace basata sulla giustizia è possibile, la pace è l'unica strada possibile”, si conclude la nota del cardinal Bo inviata all’agenzia Fides. Come soluzione concreta parla di “soluzione federale” per tutte le etnie. “Passato ferito” non è solo una frase fatta: sono 60 anni di dittatura militare, di diffusione della violenza e del reciproco sospetto in tutta la popolazione. Di fatto, una guerra civile permanente, a tutti i livelli. Non una cosa che si possa risolvere dalla sera alla mattina.