Maggioranza Ursula al tramonto, il bluff è svelato
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Nelle condizioni attuali è alta la possibilità che un'eventuale ricandidatura della von der Leyen, con immutati schieramenti, venga affossata da franchi tiratori. O "Ursula" si appoggia a una maggioranza diversa o si trova una nuova figura di leader che incarni il senso dei nuovi equilibri maturati a livello continentale.
Come era facile prevedere a partire dai risultati delle elezioni europee dell'8 e 9 giugno scorsi, e come su queste pagine avevamo ampiamente anticipato, l'esito delle trattative per l'assegnazione dei “top jobs” nel nuovo quinquennio dell'Unione europea, e in generale l'evoluzione degli equilibri politici all'interno delle sue istituzioni, appaiono tutt'altro che scontati.
I maggiori esponenti delle forze componenti il “sistema Ursula” - a cominciare dai leader che avevano subito le sconfitte più umilianti nei due paesi cardine dell'Unione, Scholz e Macron – si sono affrettati, a urne ancora quasi aperte, ad affermare che quella maggioranza era ancora in piedi, e che si sarebbe dovuto procedere con la massima celerità alla conferma della von der Leyen nel segno della continuità, tenendo tutte le forze di destra fuori dall'accordo e mettendole davanti al fatto compiuto.
Ma il tentativo di forzatura si è ben presto rivelato un bluff, frutto unicamente di debolezza. Era evidente, infatti, che se la maggioranza “Ursula” era ancora esistente sulla carta, la sua traduzione in decisioni politiche – in primo luogo quella dell'approvazione della candidata alla guida della Commissione in aula - sarebbe stata tutt'altro che scontata. In primo luogo per le divisioni interne tra le sue diverse componenti, acuite dall'insuccesso elettorale. In secondo luogo per la forte differenziazione di posizioni nel gruppo dei popolari, oggi più marcatamente connotato a destra. Infine, per la consistente presenza del gruppo dei non iscritti, che potrebbe giocare, nelle votazioni in aula, un ruolo decisivo in presenza di margini ristretti.
Infatti quel bluff è durato molto poco. Nella prima riunione dei leader europei la scorsa settimana non è stato raggiunto nessun accordo sui “top jobs”. Anzi, nel frattempo sono emersi ulteriori elementi a complicare la situazione. Innanzitutto si sono incrinati i rapporti tra popolari e socialisti: irritati, questi ultimi, per la pretesa dei primi, usciti rafforzati come gruppo di maggioranza relativa, di aumentare il proprio peso nelle cariche istituzionali (in particolare, con la richiesta di una “staffetta” tra loro e il Pse per la carica di presidente del Consiglio europeo). Poi, il gruppo di Renew Europe dopo la grave sconfitta subita ha mostrato ulteriori segni di cedimento, con la fuoriuscita dei 7 eurodeputati del partito ceco anti-immigrazione e anti-green deal Ano, ed è stato superato da Ecr, che è diventato il terzo gruppo per consistenza a Strasburgo, con 83 seggi contro i 74 dei liberali. Assottigliando la già non solida “maggioranza Ursula”, che scende sotto i 400 seggi. Infine, a destra si registrano ulteriori movimenti attrattivi e aggregativi, che potrebbero portare alla formazione di un terzo gruppo, oltre a Ecr e a Identità e democrazia, con l'unione tra Fidesz di Viktor Orbán, attualmente ancora tra i non iscritti, e proprio Ano; e di un quarto imperniato sugli eletti di Alternative für Deutschland, che potrebbe attrarre il partito slovacco di Fico, chiamata dei “sovranisti” .
In questa delicata situazione, la premier italiana Giorgia Meloni – unica tra i capi di governo dei paesi fondatori ad essere uscita rafforzata dal voto, leader incontrastata del gruppo Ecr e più autorevole voce del mondo politico a destra del Ppe – ha agito con calma e freddezza. E' andata a “vedere” le carte della “maggioranza Ursula”, aspettando gli esiti del dibattito. E ora, davanti al manifestarsi delle difficoltà e ai dubbi sorti in quello schieramento, registra la crescente consapevolezza, in primo luogo nel Ppe, del fatto che o si apre un dialogo concreto con Ecr o il rischio di trovarsi in una situazione caotica e ingovernabile è dietro l'angolo.
Infatti entro la fine di questa settimana dall'incontro dei capi di Stato e di governo a Bruxelles si attende una investitura ufficiale del candidato alla leadership della Commissione. E nelle condizioni attuali è alta la possibilità che un'eventuale ricandidatura della von der Leyen, con immutati schieramenti, venga affossata da franchi tiratori facenti capo da una parte al Pse, dall'altra a quella consistente parte dei rappresentanti Ppe (si dice tra il 10 e il 20 per cento) contrari a proseguire la “grande coalizione” con socialisti e liberali (peggio ancora se puntellata dal gruppo dei verdi, azzoppati e temuti per il loro estremismo “gretista” inviso ormai a gran parte degli elettori). Imponendo, a quel punto, di ricominciare da capo le trattative da posizioni di molto maggiore debolezza.
In tale contesto, comprensibilmente, si manifestano crescenti, esplicite aperture di credito, nella maggioranza, alla Meloni stessa, considerata sempre più un'interlocutrice imprescindibile per formare una maggioranza allargata e solida, nonché possibile mediatrice tra il Ppe e l'insieme delle destre e (aspetto non trascurabile) elemento di garanzia per la nuova governance Ue rispetto agli Stati Uniti. Sia che a novembre venga riconfermato alla Casa Bianca Joe Biden, con il quale il capo del governo italiano ha stabilito in questi anni un rapporto di fiducia, sia che a lui subentri Donald Trump, politicamente legato a una “rete” di contatti condivisi con la Meloni, che vanno da Orbán all'ex premier polacco Mateusz Moraviecki fino al presidente argentino Javier Milei. E che naturalmente non gradirebbe nella Commissione elementi socialisti (o peggio verdi) collocati in politica estera su posizioni filo-cinesi o anti-Nato, come accaduto in passato.
La trattativa, naturalmente, potrà prendere varie strade, legate alla distribuzione dei “top jobs” non solo rispetto alle aspettative di partito e gruppo, ma anche agli interessi nazionali (vale la pena di ricordare sempre che la Commissione è, nonostante tutto, un organismo intergovernativo). E potrebbe concretizzarsi in un nuovo mandato von der Leyen, ma con una maggioranza diversa, o invece nell'emergere di una nuova figura di leader che incarni il senso dei nuovi equilibri maturati a livello continentale.
Quel che è certo è che un estremo arroccamento della “grande coalizione” di centro-sinistra si fa sempre meno probabile. Che un eventuale allargamento della maggioranza a Ecr pilotato dalla Meloni non potrà essere certo una cambiale in bianco da parte di quest'ultima, e avrà un prezzo politico rilevante. E che la nuova Commissione e il nuovo Consiglio dovranno necessariamente rimettere profondamente in discussione l'impostazione seguita negli ultimi cinque anni sui principali dossier oggetto della loro azione. A partire dall'immigrazione e dalla riconversione ecologica/energetica, con le sue pesanti ricadute su industria, agricoltura, proprietà immobiliare.