DIBATTITO
Ma le neuroscienze sono davvero scientifiche?
Un convegno a Milano è stato preceduto da una presentazione che mette in discussione il libero arbitrio. Tesi vecchie, senza fondamento.
Attualità
04_04_2011
In un articolo apparso su Tutto Scienze, inserto de La Stampa del 30 marzo scorso, veniva pubblicato un intervento di Idan Segev, Professore di Neuroscienze Computazionali presso l’Università di Gerusalemme in cui, tra diversi altri temi, si faceva cenno ad alcune perplessità che in ambito neuroscientifico si sono sollevate a carico della possibilità dell’esistenza del libero arbitrio nell’uomo. Di neuroscienze si discuterà anche in questi giorni, lunedì 4 e martedì 5 aprile a Milano, in occasione del Brain Forum che lì si terrà con l’alto patronato della Presidenza della Repubblica.
Non c’è facoltà scientifica oggi, o è molto raro trovarne, che non vanti un insegnamento in neuroscienze, i manuali di neurofisiologia più accreditati ne portano il nome e oggi si chiamano appunto manuali di neuroscienze. Sono insomma un punto ormai imprescindibile dell’odierno panorama culturale e scientifico, ciò nonostante non vi è grande chiarezza su cosa siano queste discipline e ancor più su che grado di oggettività e razionalità possano vantare; sono semplicemente un qualcosa che lentamente si è affermato come ospite stabile di tutti i simposi scientifici.
Ciò che si può dire in prima battuta è che questo è un pacchetto di discipline, non una sola, che convergono quanto al proprio oggetto, che si potrebbe definire il cervello e i sistemi ad esso relativi, ciascuna con un proprio approccio più o meno empirico. Non stupisca che l’approccio possa essere anche “meno” empirico poiché, tra le discipline coinvolte, figura anche una certa matematica impegnata nella ricerca degli adeguati modelli computazionali per tradurre in linguaggio aritmetico l’economia degli impulsi neurali che si vanno via via registrando e, come noto, la matematica non è una disciplina empirica in senso stretto. Tutto questo per dire che attorno alla nozione di neuroscienze gravitano un numero non esiguo di discipline, anche tra loro molto diverse, ognuna delle quali con una propria epistemologia, ovvero con proprie condizioni veridicità che non rendono il concerto neuroscientifico sempre armonico e semplice a seguirsi.
Stigma di questa nuova disciplina, che è piuttosto una polifonia di voci ancorché si persista a designarla come unica, è una certa enfasi da “magnifiche sorti e progressive” come se tutto ciò che sino ad oggi è rimasto enigma irrisolto o mistero impenetrabile sia ad un passo dall’essere sciolto per suo tramite. Sia chiaro, è questa una presunzione che da sempre accompagna ogni nuova scienza, che nasce con la sana ambizione di rispondere a quanto rimasto inevaso dal sapere precedente, salvo poi riuscire, nella migliore delle ipotesi, a riformulare le domande non già a svilupparne le risposte.
Ora sull’antico e dibattuto tema del libero arbitrio, ad esempio, le neuroscienze propongono la propria tesi, che sostanzialmente ne nega l’esistenza; intendiamoci, non è una tesi proprio nuovissima, già Democrito di Abdera nel V secolo A.C. l’aveva sostenuta e dopo di lui molti altri, la novità non sta infatti nella tesi quanto piuttosto nel modo con cui questa viene argomentata.
Il precursore di questa tesi in ambito neuroscientifico è Benjamin Libet, un neurofisiologo americano, che a partire dal 1985 cominciò a studiare l’elettrofisiologia degli atti volontari, notando in sintesi la presenza di un potenziale elettrico (readiness potential) in anticipo di 300 millisecondi rispetto alla consapevolezza dell’azione che si sarebbe andati a compiere di lì a pochi millisecondi. Libet concluse pertanto che il libero arbitrio sarebbe un’illusione, mentre di fatto ciascuno di noi sarebbe già giocato a livello cerebrale prima di aver anche solo la cognizione di ciò che starebbe per fare. Il massimo di libertà che ci resterebbe concessa sarebbe giusto quella di dire no alle intenzioni che per altra via si sarebbero fatte strada dentro di noi, indipendentemente dalla nostra volontà.
L’autore, conscio delle enormi conseguenze morali e giuridiche connesse a queste affermazioni, ritenne di trovare coerente con questa tesi il fatto che i codici morali delle principali civiltà siano esplicitati per lo più nel senso del divieto, secondo la formula del non-fare.
Nel corso degli anni si è tentato di riprodurre in diversi modi e con tecnologie sempre più avanzate e raffinate gli esperimenti di Libet, per accertarsi che il dato da lui rinvenuto fosse reale e a tutt’oggi questi filoni di ricerca godono di buona salute, ma è l’argomento di Libet un argomento reale contro la possibilità del libero arbitrio nell’uomo?
Si consideri l’argomento nel suo scheletro logico (non entro nel merito delle molte e pertinenti obiezioni che gli sono state mosse sul piano metodologico, la più cogente quella secondo cui non è in alcun modo possibile ed empiricamente verificabile il nesso tra il potenziale elettrico e l’azione successiva, e non meno stringenti quelle sui metodi per cronometrare il tempo dell’insorgenza a livello introspettivo della consapevolezza delle proprie azioni). L’argomento in sé dice che un evento elettrico è registrabile in anticipo rispetto alla consapevolezza delle nostre azioni, pertanto queste sarebbero l’esito di quello. Posta in questi termini l’argomentazione del neurofisiologo somiglia molto a quel sofisma già notato da Hume e ribadito da Kant secondo cui post hoc ergo propter hoc, vale a dire ciò che segue nell’ordine del tempo consegue anche nell’ordine delle cause, il che non è vero. Anche ammesso che qualcosa avvenga in un tempo antecedente a qualcosa d’altro questo non costituisce argomento alcuno per ritenere l’antecedente in relazione di causalità con ciò che viene dopo. La carica elettrica registrata 300 millisecondi prima della consapevolezza delle nostre azioni in nessun modo può esserne ritenuta la causa, anche potendo connettere in un modo tutt’oggi da scoprire (e che le neuroscienze ancora non sanno spiegarci) questa carica con il successivo corso dell’azione, nulla vieta, anzi molto inclina a pensarlo, che questa sia leggibile nei termini di un orientamento verso l’azione che, divenendo consapevole, potrà compiersi oppure no laddove la si sia giudicata opportuna.
Sono diversi i campi in cui le neuroscienze ambiscono a dare contributi risolutivi per lo più intesi secondo un determinismo di massima, tale per cui ogni emozione, intenzione, stato psichico o comunque dominio del mentale sarebbe ora spiegabile in termini di sinapsi o di biochimica o genetici, ma ogni volta che si approfondiscono queste supposte spiegazioni sempre riduzionistiche si resta quanto meno perplessi nel constatarne le deficienze logiche ed epistemologiche, ovvero la mancanza di vera profondità scientifica. Se la scienza, quella più autentica almeno, è la conoscenza delle cause, si deve osservare che purtroppo molto spesso dietro il prisma delle neuroscienze si trovano congetture e tesi di limitato spessore scientifico, che non scalfiscono il livello profondo delle cause, ma si limitano (e non sempre con successo) al piano del come, poi gabellato a rango di spiegazione ultima.
Chiaramente questa non è una condanna, è possibile ed auspicabile che le neuroscienze si profilino come una scienza autentica, animata da un genuino desiderio di conoscenza; occorre però per questo un atto di umiltà previa ad ogni disciplina che si volesse scientifica e che pertanto non pretenda di poter esaurire mediante il ricorso alle proprie specificità l’oggetto delle sue attenzioni. La tendenza a voler neuralizzare ogni ambito del mentale, per non dire dello psichico e dello spirituale, è anti-scientifica, poiché se è vero che non si dà anima senza corpo nel regno della biologia, è ancor più vero che l’una non si riduce all’altra, così come le risposte alla domanda sul come funzioni il corpo non possono essere contrabbandate come risposte alle questioni inerenti l’anima e la sua esistenza; sono ordini di interrogativi diversi che possono essere posti in dialogo a patto di comprendere la diversità dei piani su cui si collocano e che non si lasciano trattare gli uni con gli strumenti degli altri. L’elettro-fisiologia dei moti della coscienza è forviante allo stesso modo che lo studio delle intenzioni di un orbitale elettronico.
Ora sull’antico e dibattuto tema del libero arbitrio, ad esempio, le neuroscienze propongono la propria tesi, che sostanzialmente ne nega l’esistenza; intendiamoci, non è una tesi proprio nuovissima, già Democrito di Abdera nel V secolo A.C. l’aveva sostenuta e dopo di lui molti altri, la novità non sta infatti nella tesi quanto piuttosto nel modo con cui questa viene argomentata.
Il precursore di questa tesi in ambito neuroscientifico è Benjamin Libet, un neurofisiologo americano, che a partire dal 1985 cominciò a studiare l’elettrofisiologia degli atti volontari, notando in sintesi la presenza di un potenziale elettrico (readiness potential) in anticipo di 300 millisecondi rispetto alla consapevolezza dell’azione che si sarebbe andati a compiere di lì a pochi millisecondi. Libet concluse pertanto che il libero arbitrio sarebbe un’illusione, mentre di fatto ciascuno di noi sarebbe già giocato a livello cerebrale prima di aver anche solo la cognizione di ciò che starebbe per fare. Il massimo di libertà che ci resterebbe concessa sarebbe giusto quella di dire no alle intenzioni che per altra via si sarebbero fatte strada dentro di noi, indipendentemente dalla nostra volontà.
L’autore, conscio delle enormi conseguenze morali e giuridiche connesse a queste affermazioni, ritenne di trovare coerente con questa tesi il fatto che i codici morali delle principali civiltà siano esplicitati per lo più nel senso del divieto, secondo la formula del non-fare.
Nel corso degli anni si è tentato di riprodurre in diversi modi e con tecnologie sempre più avanzate e raffinate gli esperimenti di Libet, per accertarsi che il dato da lui rinvenuto fosse reale e a tutt’oggi questi filoni di ricerca godono di buona salute, ma è l’argomento di Libet un argomento reale contro la possibilità del libero arbitrio nell’uomo?
Si consideri l’argomento nel suo scheletro logico (non entro nel merito delle molte e pertinenti obiezioni che gli sono state mosse sul piano metodologico, la più cogente quella secondo cui non è in alcun modo possibile ed empiricamente verificabile il nesso tra il potenziale elettrico e l’azione successiva, e non meno stringenti quelle sui metodi per cronometrare il tempo dell’insorgenza a livello introspettivo della consapevolezza delle proprie azioni). L’argomento in sé dice che un evento elettrico è registrabile in anticipo rispetto alla consapevolezza delle nostre azioni, pertanto queste sarebbero l’esito di quello. Posta in questi termini l’argomentazione del neurofisiologo somiglia molto a quel sofisma già notato da Hume e ribadito da Kant secondo cui post hoc ergo propter hoc, vale a dire ciò che segue nell’ordine del tempo consegue anche nell’ordine delle cause, il che non è vero. Anche ammesso che qualcosa avvenga in un tempo antecedente a qualcosa d’altro questo non costituisce argomento alcuno per ritenere l’antecedente in relazione di causalità con ciò che viene dopo. La carica elettrica registrata 300 millisecondi prima della consapevolezza delle nostre azioni in nessun modo può esserne ritenuta la causa, anche potendo connettere in un modo tutt’oggi da scoprire (e che le neuroscienze ancora non sanno spiegarci) questa carica con il successivo corso dell’azione, nulla vieta, anzi molto inclina a pensarlo, che questa sia leggibile nei termini di un orientamento verso l’azione che, divenendo consapevole, potrà compiersi oppure no laddove la si sia giudicata opportuna.
Sono diversi i campi in cui le neuroscienze ambiscono a dare contributi risolutivi per lo più intesi secondo un determinismo di massima, tale per cui ogni emozione, intenzione, stato psichico o comunque dominio del mentale sarebbe ora spiegabile in termini di sinapsi o di biochimica o genetici, ma ogni volta che si approfondiscono queste supposte spiegazioni sempre riduzionistiche si resta quanto meno perplessi nel constatarne le deficienze logiche ed epistemologiche, ovvero la mancanza di vera profondità scientifica. Se la scienza, quella più autentica almeno, è la conoscenza delle cause, si deve osservare che purtroppo molto spesso dietro il prisma delle neuroscienze si trovano congetture e tesi di limitato spessore scientifico, che non scalfiscono il livello profondo delle cause, ma si limitano (e non sempre con successo) al piano del come, poi gabellato a rango di spiegazione ultima.
Chiaramente questa non è una condanna, è possibile ed auspicabile che le neuroscienze si profilino come una scienza autentica, animata da un genuino desiderio di conoscenza; occorre però per questo un atto di umiltà previa ad ogni disciplina che si volesse scientifica e che pertanto non pretenda di poter esaurire mediante il ricorso alle proprie specificità l’oggetto delle sue attenzioni. La tendenza a voler neuralizzare ogni ambito del mentale, per non dire dello psichico e dello spirituale, è anti-scientifica, poiché se è vero che non si dà anima senza corpo nel regno della biologia, è ancor più vero che l’una non si riduce all’altra, così come le risposte alla domanda sul come funzioni il corpo non possono essere contrabbandate come risposte alle questioni inerenti l’anima e la sua esistenza; sono ordini di interrogativi diversi che possono essere posti in dialogo a patto di comprendere la diversità dei piani su cui si collocano e che non si lasciano trattare gli uni con gli strumenti degli altri. L’elettro-fisiologia dei moti della coscienza è forviante allo stesso modo che lo studio delle intenzioni di un orbitale elettronico.