Ma la bestemmia non è un diritto Ecco perché
Pochi commentatori, anche cattolici, hanno reagito con la dovuta serietà e con la necessaria chiarezza di idee al proclamato “diritto alla bestemmia” che il presidente Holland ha incluso di fatto tra i diritti civili e le conquiste della Rivoluzione Francese. Ma affermare tale diritto equivale a formalizzare l’implicita premessa ateistica dello Stato laicista.
Pochi commentatori, anche cattolici, hanno reagito con la dovuta serietà e con la necessaria chiarezza di idee al proclamato “diritto alla bestemmia” o “ diritto di blasfemia” che il presidente Holland ha incluso di fatto tra i diritti civili e le conquiste di libertà della Rivoluzione Francese. Purtroppo il guaio è cominciato proprio con l’Illuminismo anticattolico, i cui rappresentanti però non erano propriamente atei (non lo era nemmeno Voltaire). Quello che fece l’Illuminismo massonico fu di sostituire il culto di Dio con il culto del Potere politico. Così, in Francia i giacobini idearono la solenne intronizzazione di un’immagine della Dea Ragione nella basilica di Notre Dame a Parigi, non più casa di Dio ma esaltazione del pensiero rivoluzionario. Così, negli Stati Uniti, i Padri pellegrini fecero di Dio la bandiera delle aspirazioni all’indipendenza dalla Chiesa anglicana, governata dal re d’Inghilterra, e nella banconota da un dollaro scrissero In God we trust. Due secoli dopo, i nazisti combattevano la loro battaglia neopagana mantenendo il motto degli imperatori tedeschi: Gott mit uns…
Insomma, la storia ci mostra la rapida evoluzione di un’operazione ideologica di secolarizzazione, al culmine della quale non solo Dio non è più riconosciuto come il fondamento della legge naturale e il logico detentore del diritto all’adorazione da parte di tutti gli uomini, ma fu addirittura negato nella sua stessa realtà. Per operare questa sostituzione, siccome l’evidenza di un Assoluto è insita nella ragione umana, l’Illuminismo moderno e contemporaneo ha operato una grottesca regressione culturale, tornando all’idolatria: il culto degli idoli della nazione (antico Oriente) o il culto del Capo militare (il divus Caesar dell’Impero Romano, al quale i cristiani si rifiutavano di offrire sacrifici), ha divinizzato il Potere politico, sia che si chiami “lo Stato” oppure “la Nazione” o “il Popolo”. Il laicismo mutua dal cristianesimo il linguaggio del sacro per divinizzare le proprie: e così Jean-Jacques Rousseau, prima della Rivoluzione francese, ha parlato di una “religione civile” come garanzia del “contratto sociale”; Giuseppe Mazzini si è presentato come “l’apostolo della libertà”; lo Stato sabaudo, dopo la presa di Roma, ha inventato “l’altare della Patria” e in vista della prima Guerra mondiale ha parlato dei “sacri confini” dell’Italia; gli eroi delle guerre civili sono diventati i “martiri” (nel Ventennio si parlò dei “martiri fascisti”, subito dopo dei “martiri della Resistenza”); Stalin ha inventato i “pellegrinaggi” al mausoleo di Lenin, eccetera.
Il senso del sacro è passato tutto nella retorica politica: il Sacro autentico, il Sacro per antonomasia, cioè Dio, non ha più alcun riconoscimento pubblico come realtà in sé. Se vien evocato, è solo per descrivere “il sentimento religioso” di qualche gruppo di cittadini, ai quali lo Stato può benignamente concedere una qualche libertà di culto. In questa linea, è troppo poco limitarsi a perorare, contro la satira blasfema dei giornali occidentali, il rispetto dei diritti soggettivi delle persone che credono in Dio. Ho letto e ho approvato pienamente quanto ha scritto sulla Bussola del 18 gennaio Ettore Malnati (clicca qui), ma la questione è un’altra. Si tratta del rispetto di Dio, che esiste anche se lo Stato laicista dice che non è vero, che “non gli risulta”. Per lo Stato laicista la satira antireligiosa, compresa la blasfemia, è solo una maniera lecita di esprimere la critica razionale di un sentimento soggettivo irrazionale. E invece la verità è che la bestemmia costituisce un’ingiustizia, un disordine morale (cioè un peccato) di gravità assoluta, perché ciò che viene violato, innanzitutto, è il diritto primario che ha Dio al rispetto, all’onore e all’adorazione.
Uomini politici e giornalisti, teologi e filosofi, atei di professione e uomini di Chiesa (tra i quali i gesuiti della rivista culturale francese Etudes) hanno parlato solo di come mettere d’accordo il “rispetto del sentimento religioso” (quello dei musulmani) con la “libertà di espressione”, ivi inclusa la satira, estremizzato fino a parlare di un (finora) inedito “diritto di blasfemia”. Il tutto in un orizzonte meramente politico: non di politica come esercizio del potere regolato da criteri di giustizia in vista del bene comune, ma di politica come conflitto di interessi per la conquista o il mantenimento del potere da parte di una forza ideologica, economica e militare. Una politica del genere cerca il consenso popolare con discorsi demagogici, rivolti al sentimento e non alla coscienza dei cittadini; e, quando raggiunge i suoi fini, ecco che l’ordine sociale è sconvolto da leggi privi di qualsiasi connessione con il diritto naturale. Ma le leggi contrarie al diritto naturale non sono vere leggi, non hanno valore morale, ma si riducono a prepotenza, a tirannide, a dispotismo. Poco importa, da questo punto di vista, che la forma di governo sia totalitaria o democratica: in entrambi i casi si deve riconoscere che una gestione del potere (magistratura, governo, parlamenti) che ignori il diritto naturale fa sì che la classe politica si riduca a un’associazione per delinquere (magnum latrocinium), come diceva sant’Agostino già ai tempi della transizione tra l’Impero romano e i regni barbarici.
Proporre, come è stato fatto, che lo Stato sancisca l’esistenza di un “diritto di blasfemia” equivale a formalizzare l’implicita premessa ateistica dello Stato laicista, arrivando a far sì che lo Stato affermi esplicitamente – senza averne alcuna autorità, né logica né morale – che Dio non esiste, che ciò che alcuni chiamano “Dio” è solo un’idea soggettiva non meritevole di tutela pubblica. Mentre lo sono altre idee, ad esempio l’idea di essere degni di rispetto e di stima in quanto gay. Per questo motivo non si possono assolutamente offendere e nemmeno criticare i gay (è il reato di “omofobia”) ma si può offendere Dio, perché Dio non esiste. Invece, offendere un capo di Stato è reato di vilipendio, perché il capo di Stato esiste, e ovviamente lo Stato lo sa. Questa è la logica del discorso: lo Stato si è attribuito arbitrariamente un’autorità assoluta, sostituendosi a Dio tanto da considerarsi esplicitamente fonte di ogni verità metafisica e morale.
Ma chi ha ancora la facoltà di pensare con la propria testa sa che la verità metafisica e morale ha come fonte la ragione umana, l’esperienza immediata e universale e la riflessione su di essa (le scienze, la filosofia). Di fronte all’indottrinamento dello Stato ateistico bisogna tornare all’evidenza che Dio esiste, anche se lo Stato non lo riconosce. Lo riconosce il senso comune e la filosofia: nessun grande filosofo ha professato l’ateismo, e nessuno scienziato ha mai potuto dimostrare con i suoi strumenti di indagine che Dio non c’è. Bisogna reagire all’ideologia statalistica, che è uno dei frutti più amari dell’idealismo, e ricordare che è piuttosto lo Stato che non esiste: esistono invece uomini e donne che formano la società civile, uomini e donne che in quanto cittadini di una nazione si sono dati o hanno ricevuto una determinata forma giuridica per le istituzioni pubbliche (governo, giustizia, difesa, fisco eccetera), e ci sono tra questi cittadini alcuni che esercitano funzioni pubbliche. Gli uni e gli altri (privati cittadini e funzionari pubblici) hanno un intelletto e una coscienza, e sanno bene qual è la realtà evidente per tutti, e a partire da questa conoscenza di base (che si chiama in filosofia il “senso comune”) si formano le loro opinioni, in libertà, sulle questioni contingenti. Dal consenso, caso per caso, su ciò che è opinabile si costruisce il diritto positivo, la cui validità dipende innanzitutto dalla sua sintonia con la legge naturale e poi dal consenso popolare.
Io, fin da bambino, ho tanto sofferto per le bestemmie che sentivo in giro (e siccome sono toscano ne sentivo parecchie), e qualche volta reagivo redarguendo con una certa animosità i bestemmiatori. Poi, da sacerdote, ho dovuto assumere un contengo più pacato, imitando la mansuetudine di Gesù. Ma l’offesa a Dio fatta in pubblico profanando il suo Nome e quello della sua Madre santissima mi ha sempre recato un dolore profondo e dalla Chiesa ho imparato a fare personalmente tanti atti di riparazione, oltre alle preghiere in riparazione delle bestemmie che si recitano durante l’esposizione eucaristica. La reazione nei confronti dei bestemmiatori è passata ben presto in secondo piano, anzi poi nemmeno c’è più stata. Anche loro sono oggetto della preghiera, chiedendo a Dio stesso di non tener conto del loro peccato, «perché non sanno quello che fanno».
Insomma, di fronte alla bestemmia, una persona di retta coscienza soffre per la bestemmia perché sa bene che Dio merita rispetto sommo, anzi atti costanti di adorazione e di ringraziamento da parte di tutti gli uomini. Poco importa, a un cristiano che sia dotato di buon senso prima ancora che di fede, il fatto che la bestemmia ferisca il suo amor proprio e che egli si senta personalmente offeso nella sua appartenenza a una religione. Quello che veramente conta, quando si tratta della bestemmia, non è l’aspetto soggettivo e sentimentale ma quello oggettivo e morale. Perché la bestemmia è innanzitutto un peccato, uno dei più gravi, perché va direttamente contro il secondo comandamento del Decalogo, così banalizzato da Roberto Benigni (che è pratese come me e fa quello che può poverino, ma gli danno troppo ascolto e troppi soldi anche quando vuol far ridere con la teologia).
Il secondo Comandamento, che proibisce l’offesa al santo nome di Dio, tutti gli altri che costituiscono il Decalogo non sono altro se non la codificazione veterotestamentaria della legge naturale, e pertanto esprimono le norme morali fondamentali che ogni uomo spontaneamente conosce ed è obbligato a osservare fedelmente, come insegna san Paolo nella Lettera ai Romani. Non c’è bisogno di conoscere la Legge di Mosè, diceva san Paolo, per onorare e amare Dio come creatore e legislatore. Così, oggi, dobbiamo dire che non c’è bisogno di una legge positiva della società civile per non bestemmiare. Certo, uno Stato moderno occidentale, che si vanta di essere “laico”, non solo non manterrà le leggi contro la blasfemia che prima erano state in vario modo formulate, ma addirittura imporrà una legge a tutela del “diritto di blasfemia”. Ma la coscienza di chiunque sia dotato, appunto, di coscienza, lo indurrà a comportarsi bene con Dio, sia nella vita privata che in pubblico, senza bisogno di costrizioni legali in un senso o nell’altro.
Dal punto di vista della coscienza personale non c’è alcun problema. Il problema sorge quando le circostanze obbligano a interessarsi della cosa pubblica e a prendere posizione di fronte alle leggi ingiuste. Tanti sono i modi di prendere posizione: con il proprio attivo intervento nella formazione dell’opinione pubblica (l’insegnamento scolastico, l’uso dei mass media), con le diverse forme di critica sociale, con l’esempio della propria condotta personale (l’obiezione di coscienza) ed esercitando il diritto di voto quando il Potere lo consente. Tanti lo hanno fatto e lo stanno facendo per quanto riguarda per esempio l’aborto (questione de iure condito) o il riconoscimento pubblico delle unioni omosessuali (questione de iure condendo). Anche per quanto riguarda il preteso “diritto di blasfemia” si tratta di occuparsi positivamente della cosa pubblica e di intervenire a difesa dell’onore di Dio, ciascuno con i mezzi che Dio stesso gli mette a disposizione di volta involta.