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GOVERNO

Lupi dimesso Renzi garantista solo con i suoi

Il ministro delle infrastrutture Maurizio Lupi si è dimesso. Che l’abbia fatto spontaneamente o perché costretto da Renzi non è dato saperlo con precisione, ma da oggi il governo ha una casella vuota (e che casella!) e presto Renzi troverà il modo di farla occupare a uno dei suoi. Va registrato un atteggiamento ondivago di Palazzo Chigi in materia di giustizia.

Politica 21_03_2015
Maurizio Lupi,  ex ministro delle Infrastrutture

Il ministro delle infrastrutture Maurizio Lupi si è dimesso. Che l’abbia fatto spontaneamente o perché costretto da Renzi non è dato saperlo con precisione, ma da oggi il governo ha una casella vuota (e che casella!) e presto Renzi troverà il modo di farla occupare a uno dei suoi. Due le soluzioni: o mettere lì un fedelissimo (Lotti? Delrio?) o attrarre nell’orbita di Palazzo Chigi le preziose competenze della struttura finora presieduta da Incalza e quindi depotenziare fortemente il dicastero, sottraendogli gran parte del suo peso. 

Ncd verrà risarcito con il ministero per gli Affari regionali, che probabilmente sarà occupato da Gaetano Quagliariello. Per non scomparire definitivamente, il partito di Alfano, fortemente indebolito dalla vicenda Lupi, sta facendo pressioni per ottenere almeno la delega al Mezzogiorno, da accorpare al ministero per gli Affari regionali. In questo modo potrebbe mantenere viva la sua presenza in regioni come la Calabria, la Campania e la Sicilia, nelle quali raccoglie ancora una percentuale significativa di consensi. Normale partita per il potere, quindi. É molto probabile che il premier per ora eviti un vero e proprio rimpasto, muovendo pedine e scontentando qualche alleato o la minoranza interna al Pd. Assumerà in prima persona l’interim delle Infrastrutture e dei Trasporti, dopo di che, subito dopo le regionali, individuerà un nome su cui puntare per la successione a Lupi, che presto diventerà capogruppo di Area Popolare alla Camera. 

Ma a prescindere da come la si pensi sul ministro dimissionario, va registrato un atteggiamento ondivago di Palazzo Chigi in materia di giustizia. La contraddizione stridente nelle parole di Renzi si notò già in occasione della nomina di 4 sottosegretari, tuttora in carica, e indagati per le spese pazze delle Regioni e per altre ipotesi di reato. Il premier decise di lasciarli al loro posto, rilanciando la presunzione di innocenza: nessuno va considerato colpevole fino a sentenza definitiva. Peccato che soltanto qualche mese prima, durante il governo Letta, per il ministro Annamaria Cancellieri, coinvolta nell’affare Ligresti, avesse auspicato un passo indietro. Toni forcaioli anche nei confronti di Nunzia De Girolamo, quando venne coinvolta nell’inchiesta della Procura di Benevento sulla gestione degli appalti che ruotavano intorno alla Asl. Anche nei riguardi del fedele alleato Angelino Alfano, nell’occhio del ciclone per l’espulsione di Alma Shalabayeva, moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, costretta ad abbandonare l’Italia con sua figlia dopo il blitz delle forze dell’ordine, il premier fu caustico.

I suoi quattro sottosegretari indagati sono invece ancora al loro posto. Si potrà obiettare che il potere di un sottosegretario non sia lo stesso di un ministro, però è l’atteggiamento da due pesi e due misure che fa impressione. Mesi fa il ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, Giuliano Poletti fu toccato dagli affari di Buzzi e dai risvolti dell’inchiesta su Mafia capitale e nessuno ha mai osato chiederne le dimissioni. Per non parlare delle disavventure del padre della Boschi, associate al provvedimento, assai controverso, sulle banche popolari, assunto proprio dal governo in carica. Ma in area Pd, anche fuori dall’orbita governativa, non mancano casi imbarazzanti, verso i quali non c’è stata affatto indignazione da parte di esponenti renziani. Ci riferiamo al vincitore delle primarie dem, il sindaco di Salerno, De Luca, condannato in primo grado e, in caso di successo alle regionali campane, a rischio decadenza per via della legge Severino. Senza contare che il governatore della Puglia, Nichi Vendola, è sotto processo.

La presunzione di innocenza vale dunque a fasi alterne. Lupi, che nell’inchiesta sui grandi appalti appare come semplice comparsa, e che, almeno per ora, non è indagato, deve rassegnare le dimissioni per evitare il linciaggio mediatico; altri indagati o rinviati a giudizio o condannati sono ancora al loro posto. Un andazzo discutibile che investe il rapporto perverso tra magistratura e informazione. A decretare se qualcuno sia colpevole o innocente spesso sono alcuni giornalisti, che anticipano per via mediatica i riscontri di indagini ancora in corso. La pubblicazione di telefonate di dubbio interesse pubblico e comunque prive di rilevanza penale erode rapidamente il patrimonio di fiducia di cui gode un personaggio pubblico e gli fa franare il terreno sotto i piedi. Oggi è successo a Lupi, domani potrà succedere ad altri. Se Lupi ha commesso reati saranno gli sviluppi dell’inchiesta a dircelo. Nel frattempo, però, si è dovuto dimettere per evitare uno tsunami, anche mediatico, sul governo, che proprio in queste settimane è impegnato a potenziare le misure anti-corruzione. 

Quello di Lupi potrebbe rivelarsi un precedente pericoloso. Se basta un sospetto, una leggerezza, un’intercettazione, un’amicizia consolidata a costringere un ministro a dimettersi vuol dire che la democrazia consegna le chiavi della selezione politica alla magistratura, realizzando un cortocircuito tra poteri. Un’anomalia tutta italiana. E non c’è affatto da stare tranquilli.