L'uomo, creatura in perenne attesa
Così come è illusorio rifugiarsi nei ricordi per essere felice, altrettanto illusorio è il pensare alle speranze del futuro. L'uomo, nella poesia di Leopardi, è una creatura in perenne attesa, ma soddisfatta del presente che sta vivendo.
Leopardi ironizza sulla tendenza dell’uomo a pensare di aver vissuto bene se è stato felice nel passato o lo sarà nel futuro, ma mai nel presente. L’uomo sembra spesso in uno stato di perenne attesa di quanto sarà o di assaporamento di quanto è stato. Il problema è, invece, poter verificare nel presente la felicità, poter dire oggi che sono felice. È tema centrale del Faust, come del «Dialogo tra Malambruno e Farfarello»: la riconquista dell’unico tempo davvero reale, ovvero il presente. Anche il futuro è, infatti, oggetto solo della nostra speranza. La speranza, se non ha le sue radici in un presente verificabile, è una pianta destinata a non crescere e a morire in breve tempo. La questione sta proprio in questo già e non ancora, nei segnali del presente che rimandano a un «non ancora».
Nel «Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere» il venditore cerca di diffondere gli almanacchi con l’auspicio di un anno bello. Il passeggere con un’ironia sottile, che ne fa lo specchio di Leopardi, incalza allora il suo interlocutore con una serie di domande miranti a demistificare l’ottimismo irragionevole, cioè senza ragioni fondate, dell’altro. Il venditore si rende conto che lui, come tutti gli altri, vorrebbe un anno diverso da tutti quelli che ha vissuto fino a quel momento, migliore degli ultimi vent’anni che si ricorda, e che se dovesse tornare indietro per vivere la stessa vita che ha vissuto non vorrebbe. Vorrebbe rinascere, ma solo per vivere una vita diversa da quella che ha vissuto. Allora il passeggere fa riflettere il venditore sul fatto che noi diamo per scontato che la vita sia una cosa bella senza chiederci i motivi.
Viviamo sempre aspettandoci dal futuro quello che pensiamo di non avere nel presente, in una situazione di perenne attesa, di sospensione, affidando al futuro quella felicità che noi dovremmo chiedere al presente. Quanti progetti, quante speranze, quante illusioni, quanti piani meditiamo sulla nostra vita, proiettati in un tempo ancora lontano! Quanti vivono per conseguire fama e gloria dai contemporanei, affidando il conseguimento della propria felicità al riconoscimento della propria grandezza o presunta tale! Quando le ottengono, si rendono conto dell’inanità del piacere conseguito. Come annota tristemente Pavese ne Il mestiere di vivere, dopo aver ricevuto a Roma il Premio Strega: «Tornato da Roma, da un pezzo. A Roma, apoteosi. E con questo? Ci siamo, tutto crolla». Allora subito si cerca di conseguire la gloria della posterità, una gloria che vada oltre la nostra vita terrena e che renda immortale il proprio nome. In maniera puntuale Leopardi osserva un atteggiamento particolare in «uomini di certa fruttuosa ambizione», una «speranza riposta nella posterità, quel riguardare, quel proporsi per fine delle azioni dei desideri delle speranze nostre la lode ecc. di coloro che verranno dopo di noi.
L’uomo da principio desidera il piacer della gloria nella sua vita, cioè presso a’ contemporanei. Ottenutala, anche interissima e somma, sperimentato che questo che si credeva piacere, non solo è inferiore alla speranza (quando anche la gloria in effetto fosse stata maggiore della speranza), ma non piacere, e trovatosi non solo non soddisfatto, ma come non avendo ottenuto nulla, e come se il suo fine restasse ancora da conseguire (cioè il piacere, infatti non ottenuto, perché non è mai se non futuro, non mai presente); allora l’animo suo […] quasi fuori di questa vita, posteritatem respicit (si rivolge alla posterità) come se dopo morte [...] debba conseguire il fine, il complemento essenziale della vita, che è la felicità, vale a dire il piacere non conseguito ancora, […] allora la speranza del piacere, non avendo più luogo dove posarsi, né oggetto al quale indirizzarsi dentro a’ confini di questa vita, passa finalmente al di là, e si ferma ne’ posteri, sperando l’uomo da loro e dopo morte quel piacere che vede sempre fuggire, sempre ritrarsi, sempre impossibile e disperato di seguire, di afferrare in questa vita».
Leopardi, cui è caro questo tema, ritorna più volte sulla questione, soffermandosi anche sul fatto che la tendenza a procrastinare la felicità al futuro sino a giungere al desiderio di conseguire la felicità dai posteri si accentua sempre più man mano che l’uomo cresce e si fa adulto ed è pressoché assente nel bambino. Questi non pensa che al presente e riesce a concepire il futuro solo come l’attimo immediatamente successivo al presente; «ond’è che proporre al fanciullo (per esempio negli studi) uno scopo lontano (come la gloria e i vantaggi ch’egli acquisterà nella maturità della vita o nella vecchiezza, o anche pur nella giovanezza), è assolutamente inutile per muoverlo (onde è sommamente giusto ed utile l’adescare il fanciullo allo studio col proporgli onori e vantaggi ch’egli possa e debba conseguire ben tosto, e quasi di giorno in giorno, ch’è come ravvicinare a’ suoi occhi lo scopo della gloria e dell’utilità degli studi…)».
Come sono vere queste parole di Leopardi e come è evidente che per motivare davvero un giovane allo studio come a qualsiasi altra attività si debba far leva sulla passione, motivarlo ad un «interesse (nel senso etimologico del termine, da intersum, ovvero «sono in mezzo a, c’entro con, partecipo a») al presente, cioè a verificare come quanto sta affrontando c’entri con la propria persona, altrimenti lo sforzo che si compie per indurlo ad applicarsi è, quasi sempre, inutile!
L’adulto, spesso, non si pasce che della speranza e rinuncia al conseguimento della felicità al presente. È bene qui notare che una cosa è rinunciare alla felicità al presente delegando ad un futuro indeterminato e altra cosa è constatare in maniera realistica come «la speranza è una passione, un modo di essere, così inerente e inseparabile dal sentimento della vita… come il pensiero, e come l’amor di se stesso, e il desiderio del proprio bene. Io vivo, dunque io spero, è un sillogismo giustissimo, eccetto quando la vita non si sente, come nel sonno… Ogni momento è in un certo modo un atto di desiderio, e altresì un atto di speranza».
D’altronde la stessa natura umana è strutturata come desiderio, come attesa di un compimento delle esigenze di felicità, di verità, di giustizia del proprio cuore. Non sorprenderà, quindi, più di tanto la constatazione leopardiana del senso di piacevolezza che desta l’attesa di un fatto che deve accadere, di un evento, di un appuntamento, di una festa. Immaginatevi quale intensità avrebbe la vita se si vivesse ogni istante come attesa di questo incontro. La nostra vita è, infatti, attesa di un’avventura, nel senso etimologico del termine, attesa di qualcosa che irrompe dall’esterno, che sopraggiunge spesso inaspettato e inopinato, qualcosa che non costruiamo noi, non progettiamo noi. A cosa si riduce, invece, la vita quando non attendiamo più nulla!
In Leopardi la prospettiva di questa dimensione strutturale dell’uomo trova una sua vivacissima rappresentazione nel canto «Il sabato del villaggio». La poesia si apre con un’indimenticabile scena di paese «in sul calar del sole», giocata sull’antitesi di due figure, la «donzelletta» e la «vecchierella. La prima vive con gioiosa attesa il dì festivo e raccoglie i fiori che l’abbelliranno il giorno successivo, la seconda vive nei ricordi di quando, giovane, «ai dì della festa ella si ornava» e «Solea danzar la sera intra di quei/ Ch’ebbe compagni dell’età più bella». Grande è la maestria con cui Leopardi ci stampa nella mente l’imbrunire, l’apparire della recente luna, il suono delle campane che preannunciano la festa, le grida dei fanciulli che rallegrano chi le ascolta, accomunate al fischiettare dello zappatore, solitario, che torna a casa terminato il lavoro. Qualcuno, però, non ha ancora terminato le fatiche, nel silenzio della sera cerca di concludere i propri lavori prima che sia notte.
Quando l’attesa non è seguita dal compimento subentra la delusione. Quando non accade nulla, oppure noi non vediamo perché abbiamo gli occhi chiusi, la realtà delude. Leopardi, come spesso accade, anche in questa poesia coglie uno spunto dalla vita (il giorno che precede a quello festivo) per affrontare temi che assurgono ad una valenza universale, che hanno una validità per tutti. La giovinezza è come il sabato, «giorno d’allegrezza pieno, […] che precorre alla festa» della nostra vita. L’età adulta è come la domenica, il giorno di festa. Il consiglio velato e affettuoso che affida Leopardi alle giovani generazioni è di non essere ansiosi che giunga in fretta l’età matura. Quanti ragazzi voglio diventare subito «grandi», raggiungere in fretta la maggiore età! Quanti vivono di progetti, di pianificazioni della propria vita, a breve o a lungo termine, sempre fuori dalla propria casa, dal proprio cuore, sempre dimentichi della domanda di felicità che urge una soddisfazione nell’hic et nunc!
Altro è vivere il futuro, concepire questa dimensione temporale nell’unico modo che ci è concesso, quello che Sant’Agostino nelle Confessioni designa «il presente del futuro», ovvero la speranza, una speranza che è, però, legame forte tra quanto viviamo e il tempo che deve venire, ovvero aspettativa di qualcosa in nome di quanto già stai assaporando ora, prospettiva che collega l’attimo presente al destino: speranza e attesa di un «non ancora» in forza di un «già» presente. Già e non ancora. Nella prospettiva evangelica potremmo anche parlare di «centuplo quaggiù e l’eternità»: il centuplo non è ancora la pienezza, ma in grazia dell’esperienza del centuplo si spera nell’eternità. Dobbiamo riappropriarci del presente, l’unico tempo che abbiamo a disposizione per verificare e sperimentare il nostro io in azione, per sperimentare la corrispondenza di quanto viviamo col nostro cuore, ovvero con la nostra esigenza di felicità. Solo chi nutre la speranza di essere felice può pensare alla felicità altrui, perché solo chi si vuole bene (e sa cosa significhi volersi bene) può voler bene ad un altro così come ben dichiara Leopardi nello Zibaldone: «Chi ha perduto la speranza d’esser felice, non può pensare alla felicità degli altri, perché l’uomo non può cercarla che per rispetto alla propria. Non può dunque neppure interessarsi all’altrui infelicità».