L'uomo che disse la verità sugli afroamericani
Cinquant'anni fa, negli Usa, il senatore democratico Daniel Patrick Moynihan pubblicava il documento che passò alla storia col nome dell'autore: Rapporto Moynihan. Fu accusato di razzismo e cadde in disgrazia. In realtà aveva messo il dito nella piaga: il problema degli afroamericani partiva dalla crisi della famiglia.
50 anni fa, il senatore del Partito Democratico statunitense Daniel Patrick Moynihan (1927-2003) pubblicava The Negro Family: The Case For National Action, ma detto così praticamente nessuno se ne ricorda. Dire invece Moynihan Report (come da sempre viene chiamato, tale è l’impronta lasciata dall’autore su un documento di per sé tendente al burocratichese) riscalda ancora gli animi: da una parte chi non ha smesso di stracciarsi le vesti, dall’altro chi lo saluta come una perla e per giunta profetica. L’argomento è lo stato di povertà e di degrado della comunità afro-americana, ma il suo peccato originale è l’evitare con cura ogni cliché del politicamente corretto, a partire dal mito immarcescibile dello statalismo come toccasana. E la cosa che la Sinistra di allora e di oggi non ha mai perdonato è il fatto che il suo autore non fosse affatto un arcigno conservatore, ma un sofisticato sociologo da salotto newyorkese trasformatosi in senatore di quel partito che proprio mezzo secolo fa, con la presidenza di Lyndon B. Johnson (1908-1973), si avviava al radicalismo.
Sempre impeccabile come un Cary Grant della bella Hollywood di un tempo, Moynihan è dunque più amato a destra che non in quella sinistra che lo ha capito sin troppo bene e che per questo lo ha infamato. “Razzista” lo hanno apostrofato gli uni, “maschilista” hanno riecheggiato le femministe. Perché? Solo perché Moynihan ebbe il coraggio, da sinistra, di affermare, documentandolo, che il vero problema degli afro-americani è lo sfascio totale dell’istituto familiare. Era la morte della famiglia, diceva Moynihan, l’origine del disagio e dell’apatia di gran parte della comunità nera; era la mancanza dei riferimenti genitoriali, entrambi, padre e madre, la causa dello sbando di tanti giovani che così finivano in fretta nelle grinfie dell’alcol, della droga, della prostituzione, della gang, della criminalità, della violenza. Padre, madre, neri: sono bastate queste tre parole per scatenare la macchina del fango contro il più colto senatore americano del dopoguerra che del razzista proprio non poteva avere nemmeno l’ombra.
Dapprima era venuta la ghettizzazione con cui gli Stati Uniti vincitori della Guerra di Secessione (1861-1865) avevano mascherato un nuovo razzismo, più subdolo e deprimente. Questa produsse presto l’emarginazione degli afro-americani e su di essi ‒ oggi lo sappiamo bene ‒ ebbe velocemente impatto devastante la nuova morale sessuale, la controcultura e persino l’eugenetica. Alla fine del percorso, Moynihan non poteva che certificare il decesso della famiglia. Era il mese di marzo del 1965 quando il suo rapporto uscì. Lui era sottosegretario al Lavoro e quel documento fu un atto ufficiale del governo. Ma il suo primo interlocutore era la Casa Bianca, perché un anno prima, nel 1964, il presidente Johnson aveva tronfiamente dichiarato “guerra alla povertà". Come tutti i piani del progetto johnsoniano denominato “Great Society”, anche la “guerra alla povertà” si fondava infatti su un dogma ideologico: che l’intervento dello Stato può tutto e tutto risolve, alla mala parata immettendo nel sistema ingenti dosi di quattrini. Invece di rimuovere gli ostacoli alla libera intrapresa delle persone che crea ricchezza vera, lo Stato johnsoniano si mise quindi a elargire sussidi a pioggia con il risultato di angariare una parte della popolazione (colpita dall’esagerata pressione fiscale necessaria alla copertura economica dei programmi di assistenza) e di non fare proprio nulla per l’altra, quella povera sul serio. Anzi, acuendo il guaio. Campare dei sussidi statali divenne infatti un vero e proprio mestiere per milioni di americani, anzitutto per i neri che nella povertà vivevano davvero. Dato che proprio la miseria fruttava uno “stipendio”, nessuno di loro ebbe la benché minima ragione per rimboccarsi le maniche. Uno sciagurato circolo vizioso che nella comunità nera ebbe l’effetto di una bomba.
Moynihan lo capì e lo disse al presidente, proponendo di sostituire il farraginoso e dannoso assistenzialismo con un ritorno alla famiglia rimessa in grado di fare da sé; sì insomma, di essere lasciata sola, libera, intraprendente, difesa. Ma non fu ascoltato. Per vastissime fasce della popolazione americana continuò a convenire economicamente di più vivere nel disastro e idem, politicamente, per la Casa Bianca. Panem et circenses. Forse per questo l’accorto Moynihan è considerato un antesignano dei neoconservatori, quegli ex uomini della Sinistra che la Sinistra ha deluso e che per questo si sono spostati lentamente sempre più a destra.
Oggi il lungimirante Moynihan Report è più che mai attuale. Timothy S. Goeglein, l’ex assistente speciale del presidente George W. Bush Jr. (travolto nel 2008 da un scandalo per il plagio di alcuni articoli, ma protagonista di un ravvedimento che andrebbe raccontato), lo mette in luce sulle pagine del periodico Citizen (edito da Focus on the Family), ripreso sul numero di settembre-ottobre di The American Conservative. Nell’era di Barack Obama l’assistenzialismo ha raggiunto livelli record e al centro non vi sono più solo i neri ma oggi anche i latinos. Moynihan aveva un termometro sicuro per valutare la società americana: più il welfare si allarga, più la famiglia degrada. Oggi che la parola inglese “negro” del titolo del suo rapporto non si può più nemmeno pronunciare benché ricalchi il latino per “nero”, la realtà gli dà ragione da vendere.