L'undicesima piazza
È in corso in Italia l' iniziativa: «Dieci piazze per dieci comandamenti». Ogni piazza di 10 grandi città viene dedicata a un comandamento. Proposta per l'autunno: un'undicesima piazza per dire un si alla bellezza della legge naturale.
È in corso in Italia una delle più importanti iniziative che, su scala mondiale, segnano l’Anno della fede: «Dieci piazze per dieci comandamenti», promossa dal Rinnovamento nello Spirito Santo e cui sia Benedetto XVI sia Papa Francesco hanno voluto partecipare con videomessaggi ai partecipanti. L’idea è di riprendersi le piazze di dieci grandi città italiane, in ciascuna proponendo uno dei dieci comandamenti, i quali – com’è noto – sono stati rivelati da Dio per soccorrere le difficoltà della nostra ragione ferita dal peccato originale, ma corrispondono a verità naturali che di per sé la ragione di ciascuno potrebbe riconoscere. Corrispondono a quella legge naturale che vale per tutti, cristiani e non cristiani, credenti e non credenti. Come spiega Papa Francesco nel suo videomessaggio, prima ancora che sulle tavole di pietra di Mosé i dieci comandamenti sono scritti nel cuore dell’uomo. Di ogni uomo, che creda o che non creda, così che proporli come antidoto alla crisi globale e anche come fonte ispiratrice della politica e delle leggi non è un maldestro tentativo della Chiesa di imporre la sua morale ai non credenti ma un richiamo al patrimonio comune della ragione. Quella ragione che non è né cristiana né musulmana, né atea né buddista, ma vale per tutti e a tutti chiede di essere rispettata.
Sono stato fra i testimoni in piazza a Verona per «Non nominare il nome di Dio invano» e il 29 giugno a Cagliari per «Non desiderare la roba d’altri», e ho visto con quanto entusiasmo il popolo cristiano – non solo quello del Rinnovamento nello Spirito – aderisce a questa iniziativa, sempre onorata dalla presenza anche dei vescovi locali. Il comandamento «Non desiderare la roba d’altri» è molto più profondo di quanto comunemente si creda. Non si riferisce solo al denaro e ai beni materiali. La «roba d’altri» che il nostro peccato brama è l’identità che non è nostra: vogliamo essere quello che non siamo. A Cagliari abbiamo potuto ascoltare una drammatica testimonianza sull’anoressia, e si moltiplicano gli studi sugli abusi, spesso distruttivi, della chirurgia estetica, non solo fra uomini e donne anziane ma anche tra ragazze giovanissime. Vogliamo «la roba d’altri», vogliamo un corpo diverso dal nostro, vogliamo essere quello che non siamo. Così gli uomini vogliono essere donne, le donne vogliono essere uomini. Non siamo disposti a riconoscere un’identità che viene dalla natura, cioè da Dio: vogliamo inventarci un’identità secondo i nostri desideri e le nostre voglie, e cambiarla quando le voglie e i desideri cambiano.
Oggi questa brama malsana e malata di «roba d’altri» è diventata anche politica. Si pretende il timbro dello Stato su ogni invenzione di un’identità, si chiede che lo Stato riconosca ogni desiderio che gli sia presentato come «amore». Così si vuole che lo Stato riconosca l’«amore» tra persone dello stesso sesso, ma già si odono voci che chiedono lo stesso riconoscimento all’«amore» della poligamia e a quello dell’incesto. Si chiede allo Stato di tutelare l’«amore» per gli anziani o per i bambini malati che – secondo una soggettiva interpretazione, che nessuno può discutere in tempi di dittatura del relativismo – si esprime nell’ucciderli con l’eutanasia «per non farli soffrire». Si impone allo Stato di riconoscere anche il nostro «amore» per le esperienze estreme, lasciandoci liberi di utilizzare qualunque droga, per quanto omicida e pericolosa.
E la Chiesa in tutto questo? Spesso la sua voce è debole, soffocata, appena sussurrata perché tanti, troppi cristiani sono vittime – insieme ai molti non cristiani che inseguono le comode spiritualità fai da te del New Age – di quella mondanità spirituale denunciata da Papa Francesco, che riduce anche Dio a «roba d’altri». Dio diventa uno stato superiore di coscienza, «roba» appunto, qualche cosa che ci faccia sentire bene. Si cerca un sacro da possedere, e – poiché, come insegna il Papa, la mondanità spirituale è il regno del demonio – si finisce spesso per essere posseduti.
Le Dieci Piazze sono un grande avvertimento del popolo di Dio alla dittatura del relativismo: le piazze d’Italia sono nostre, sono di una storia che è nostra, non sono solo dei vari Gay Pride. Non siamo più disposti a farci buttare fuori dalle piazze, a farci confinare nelle sacrestie dei cristiani «adulti» che si sottomettono al mondo e si fanno applaudire dai media perché hanno smesso di dare fastidio. La Chiesa ha fatto le piazze d’Italia, e oggi quelle piazze ce le vogliamo riprendere. Grazie dunque a chi ha pensato e organizzato le Dieci Piazze. Ma subito una proposta: in autunno ci sia anche un’undicesima piazza, non importa se sotto forma di evento nazionale o di eventi locali coordinati tra loro. Una piazza – secondo il videomessaggio di Papa Francesco – non «contro» qualcuno ma per dire anzitutto un «sì» alla bellezza della legge naturale iscritta nel cuore di ogni uomo, alla vita, alla famiglia, alla libertà di educazione. Il Papa aggiunge nello stesso videomessaggio che «poiché io dico di “sì” all’Amore, dico “no” al non Amore, ma il “no” è una conseguenza di quel “sì” che viene da Dio e ci fa amare».
Il popolo della famiglia e della vita è un popolo del «sì», e certamente l’undicesima piazza dovrà bandire ogni forma di zelo amaro, d’insulto, di provocazione, e – aperta al contributo dei non cattolici e non credenti che amano la legge naturale e il bene comune – dovrà però essere promossa da cattolici per cui la lealtà alle indicazioni del Papa e del Magistero è un marchio di fabbrica e un fiore all’occhiello. L’undicesima piazza dovrà però dire «no» con grande chiarezza a chi chiede il timbro dello Stato su forme di desiderio che negano l’identità naturale, a partire dal riconoscimento a qualunque titolo di unioni fra persone dello stesso sesso. Dovremo spiegarlo in piazza: dire «sì» all’amore significa anche dire «no» alle versioni contraffatte dell’amore. Dentro il «sì» del popolo della vita e della famiglia c’è anche la fermezza di un «no» che è appunto, come dice il Papa, «conseguenza di quel “sì”».
Io penso che in autunno sia opportuno tornare in piazza prima che il Parlamento approvi una legge sulle unioni omosessuali – e chissà quali altre diavolerie ostili alla vita e alla famiglia –, senza aspettare di protestare dopo, quando i buoi sono scappati dalla stalla, come si è fatto – pure in modo corale e nobile – in Spagna e in Francia. Lo ha detto bene l’Arcivescovo di Bologna, il cardinale Carlo Caffarra, rispondendo al sindaco della sua città che al Gay Pride aveva chiesto subito matrimonio e adozioni omosessuali anche in Italia. Il cardinale ha chiesto che si rispetti «il cittadino che non per fobia ma con motivate ragioni ritiene matrimonio ciò che è stato definito tale fin dagli albori della civiltà o ritiene non si possa parlare di un diritto ad adottare ma del diritto di ogni bambino ad avere un padre e una madre». «Davvero – si è chiesto Caffarra – questo cittadino, con la sua cultura e le sue ragioni, è da giudicare incivile e fuori dalla storia, condannato a sentirsi estraneo in casa sua, perché non riesce a stare al passo del sedicente progresso? Naturalmente ci sarà chi, riempiendosi la bocca di laicità dello Stato (che è cosa ben più seria!), ci accuserà di voler imporre una dottrina religiosa. Ma qui non c’entra religione o partito, omofobia o discriminazione: sono i fondamentali di una civiltà estesa quanto il mondo e antica quanto la storia ad essere minati; e forse non ci si accorge dell’enormità della posta in gioco».
Sì, la posta in gioco è davvero enorme. «Affermare che omo ed etero sono coppie equivalenti – ha concluso il cardinale –, che per la società e per i figli non fa differenza, è negare un’evidenza che a doverla spiegare vien da piangere. Siamo giunti a un tale oscuramento della ragione, da pensare che siano le leggi a stabilire la verità delle cose. Ad un tale oscuramento del bene comune da confondere i desideri degli individui coi diritti fondamentali della persona». Contro l’oscuramento della ragione e del bene comune l’indignazione individuale non basta più. Ci siamo presi dieci piazze, riprendiamoci l’undicesima.