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BRIGATE ROSSE

L'ultimo oltraggio

I “combattenti comunisti” hanno cantato l’”Internazionale”, alzando i pugni chiusi davanti alla bara di Prospero Gallinari, carceriere di Aldo Moro. Non solo la rivendicazione di una storia, ma l'affermazione di un’identità ostentata e uno schiaffo ai famigliari e alle vittime del terrorismo.

Editoriali 22_01_2013
I funerali di Gallinari

Altri tempi quelli nei quali televisioni e giornali parlavano di “sedicenti Brigate Rosse”. I “combattenti comunisti” oggi cantano l’”Internazionale”, alzando il pugno chiuso davanti alla bara del loro compagno di lotta, Prospero Gallinari, il carceriere di Aldo Moro.
Non è solo la rivendicazione di una storia, è anche l’affermazione di un’identità, di una disinibita e ostentata appartenenza, esaltata dalle loro orride vestigia antiche. 
Vengono ripresi dalle telecamere mentre il partito di “Repubblica” lancia sul proprio sito il video in esclusiva (!) della riunione di questi reduci. Di una stagione che durò anni e anni e che, con una lunga scia di sangue e violenza, seminò il terrore, mettendo a ferro e fuoco il paese.

Ci si sofferma sulla partecipazione di due esponenti di Rifondazione comunista – ai quali nessuno ha raccontato le centinaia di milioni di morti del comunismo reale – senza guardare alla sostanza della questione, che ha risvolti inquietanti.
Il primo, è costituito dal fatto che non c’è alcuna differenza tra la violenza teorizzata, divulgata ed effettuata da quei terroristi e la violenza più feroce della storia dell’umanità, quella nazista. Entrambe, si sono scatenate, come tutti i tipi di violenza, sull’essere umano inerme, per annientarlo e l’hanno fatto per idee prive del senso di umanità. 
Per questa ragione, fare da cassa di risonanza di un gruppo di persone che rivendicano, con gesti, canti e parole una stagione di violenza – rispetto alla quale si sentono protagonisti, senza un minimo di seria autocritica e pentimento e richiamandosi, per spiegare i loro delitti, al “contesto” di quegli anni – equivale a mettere in onda una parata nazista.

Il secondo elemento inquietante di questa storia riguarda lo Stato democratico, nelle sue varie articolazioni. Uno Stato che nonostante cinque processi e trascorsi 35 anni, non è neanche riuscito a disvelare la verità processuale piena su quell’operazione di “geometrica potenza” – come fu allora definita – che portò all’assassinio di cinque suoi servitori e a quello di Aldo Moro. Uno Stato che è riuscito ad avere un Presidente del Consiglio che in una sede istituzionale, la Commissione d’inchiesta sul “caso Moro”, ha raccontato di aver partecipato a una seduta spiritica nella quale sarebbe magicamente emerso il nome Gradoli.

Scrive Gianluca Neri ne “Il caso Moro: Romano Prodi, Via Gradoli e la seduta spiritica” – che “una 'entità' [nella fattispecie, e come risulterà dal verbale, gli spiriti di Don Sturzo e La Pira, n.d.r] avrebbe indicato 'Gradoli' come luogo in cui era tenuto prigioniero Aldo Moro. Sulla base della segnalazione dall’aldilà, il 6 aprile viene organizzata una perlustrazione a Gradoli, un paesino in provincia di Viterbo. Al ministero dell’Interno, che aveva in precedenza ricevuto la segnalazione su via Gradoli, nessuno mette in collegamento le due cose. E’ la moglie di Moro, Eleonora, a chiedere se non potrebbe trattarsi di una via di Roma. Cossiga in persona, secondo la testimonianza resa in commissione da Agnese Moro, risponde di no. In realtà via Gradoli esiste, e sta sulle Pagine gialle”.

Leonardo Sciascia, che tenta d’incalzare Prodi durante l’interrogatorio della Commissione d’inchiesta, aveva scritto tempo prima che “l’insieme dell’’affaire Moro’ fosse accaduto in una dimensione letteraria, una perfezione da ‘messa in scena’ che non può appartenere che all’immaginazione. Una grande verità.
Uno Stato che ha consentito che non uno solo di coloro che hanno commesso reati e violenze di ogni tipo, sia ancora in carcere.
Si proclamavano prigionieri politici e come tali, in sostanza, sono stati trattati. Sono stati anche rispettati, persino nei loro comunicati, che venivano divulgati e stampati dai giornali, con il loro linguaggio pomposo, vuoto, delirante e incomprensibile, con i loro richiami alla “prigione del popolo”, all’”esproprio proletario”, al “potere delle multinazionali”.

Mentre delle lettere di Moro – nelle quali, come scrisse Sciascia, “egli tentò di dire col linguaggio del non dire, di farsi capire adoperando gli stessi strumenti che aveva adottato e sperimentato per non farsi capire. Doveva comunicare usando il linguaggio dell’incomunicabilità. Per necessità: e cioè per censura e per autocensura. Da prigioniero. Da spia in territorio nemico e dal nemico vigilata” - si disse che non potevano essere sue.

Così, Moro ebbe due carnefici e fu ucciso due volte. Come sono state uccise tante volte, in questi anni, le vittime dei terroristi e i loro familiari, che non hanno parola, silenti nel loro dolore e nelle loro angosce.
Padri, figli, mogli, madri, che hanno pagato un prezzo inaudito, per l’affermazione di una scellerata prospettiva e per uno Stato che per tanti anni non ha saputo proteggere i suoi cittadini. Morti inermi. Ammazzati.

Nella sua ultima lettera alla moglie Eleonora, Aldo Moro le chiese di ricordarlo “soavemente”. Si chiese anche come sarebbe stato il dopo. “Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo”, scrisse. 
Come Moro, tutte le vittime dei terroristi che ora si esaltano e vengono esaltati, sono stati testimoni di verità e di libertà, di lucida e coerente tessitura di amore per la vita, per le loro famiglie, per il loro paese, “vinti” da un’unica certezza: “solo il seme che muore, porta frutto”. Sono loro, e solo loro, gli eroi di questa povera e triste democrazia.