IL RICORDO
L'ultimo «colloquio» di Rodolfo Doni
Tra i più grandi scrittori cristiani, l'autore toscano scomparso di recente ha scritto pagine vibranti, come quelle in memoria del figlio.
Cultura
08_10_2011
Domenica 2 ottobre è morto a Firenze Rodolfo Doni (all’anagrafe Rodolfo Turco), uno dei maggiori scrittori contemporanei d’ispirazione cristiana. Nato a Pistoia il 20 marzo del 1919, è stato autore di saggi, drammi teatrali (dedicati a Ignazio di Loyola e a Giorgio La Pira), biografie di santi (Agostino, Monica, Francesco, Chiara) e romanzi, tra cui Muro d’ombra, finalista al Premio Campiello nel 1974.
Nel giugno del 1992 Cesare Cavalleri gli chiese di inaugurare per Ares la collana «Ossidiana» di «Prosa creativa, poesia, traduzioni d’autore» e Doni rispose affidando all’editore milanese il suo libro più intenso e straziato, da cui si può leggere, come da una finestra piena di luce, il paesaggio «interno» dello scrittore così sensibile ai temi della fede, della famiglia, del quotidiano. Colloquio con Lorenzo fu un diario segreto in cui ogni singola riga era battezzata dalle lacrime (come anche Ungaretti ricordava del suo Dolore): un libricino azzurro di poco più di cento pagine in cui elaborava il lutto per la morte del figlio, stroncato ventiduenne in un incidente stradale.
Lorenzo morì il 15 luglio 1990 sull’autostrada Savona-Torino (una delle più «maledette» d’Italia) insieme all’amico Francesco. Stavano andando a Taizé per gli incontri di frère Roger. La loro Panda bianca fu centrata frontalmente da un Renault che sorpassava in zona proibita. Doni ricordò più volte che da quel giorno la sua vita diventò una vigna torturata. E dal 22 luglio al 21 ottobre 1990 iniziò un’immaginaria e insieme realissima corrispondenza con il suo quartogenito (tutti i figli di Doni hanno nome di battesimo che inizia per «L»: gli altri sono Luca, Lucia e Laura).
Le pagine dei suoi quaderni si trasformarono in una cartografia della sofferenza, similmente a quanto accadde a C.S. Lewis nel suo Diario di un dolore dedicato alla prematura scomparsa della moglie Joy Davidman Gresham (vicenda raccontata nel film del 1993 Viaggio in Inghilterra, per la regia di Richard Attenborough e con la straordinaria interpretazione di Anthony Hopkins). Il «colloquio» di Doni con il figlio procede per lampi, singhiozzi, tessere che non vanno al loro posto dopo la conflagrazione. Uno squarcio privato che inizialmente non doveva farsi pubblico, che fu dato alle stampe «dopo molte incertezze». Così ricordava l’autore nella Giustificazione: «Avevo scritto queste pagine esclusivamente per lui e per me: a ricordo suo, sempre; a conforto mio in quei giorni della sventura quando non sapevamo come continuare a vivere» (p. 13). La vita del figlio emerge per una segnaletica precisa ma essenziale sulla distesa di un vuoto accecante: la nascita dopo una gravidanza difficile, la passione per il calcio, il lavoro in un garage per racimolare qualche risparmio, la battaglia di un adolescente come tanti per il motorino («Ricordo che quando ci chiedeva la Vespa gli dicevo: Piuttosto ti darò la macchina appena avrai l’età per la patente!» (p. 32). Il volto tumefatto di Lorenzo appena intuito all’obitorio resero ancora più urgente l’interrogazione di Doni sul Dopo.
Era un padre martirizzato, ma credente: «Il luogo dove ti ritrovo – e ti ritroverò ogni sera per tutta la vita in questi pochi anni che mi restano» è l’Eucarestia con la quale Cristo, e dunque tu che sei in Lui, venite a me e io a voi. Non altro punto d’incontro vero nonostante i tanti che di te mi circondano» (p. 17). A Doni bastano poche pennellate per ricostruire anime e volti del dramma. Della madre di Lorenzo sappiamo quanto traspare dalla figura retorica della reticenza. Ma poche righe inquadrano il suo respiro di donna pietrificata. Così lo scrittore vuole che il figlio interceda per lei: «E tu vedi oggi il suo volto smagrito, i suoi occhi cerchiati, il suo chiudersi; io devo spronarla, lei che era la prima a stabilire un rapporto... Spero che torni a essere com’era, anzi a donarsi con maggior trasporto a chiunque ne abbia bisogno sapendo che questo tu vuoi da noi ora... Diglielo, chiediglielo a Dio che ti consenta di riaprire il cuore di tua mamma alla partecipazione gioiosa» (p. 36).
In quei giorni la scrittura per Doni fu allo stesso tempo condanna e salvezza. Condanna perché rimpiangeva il tempo sottratto al figlio («Io mi chiudevo nello studio rientrando... Ah, questo impegno dello scrivere! Toglieva gran tempo a te, come già ai tuoi fratelli. A te dedicavo soprattutto il sabato mattina quando non andavi all’asilo e restavamo soli in casa. Allora, sollevando la penna dal foglio, ti guardavo, e se ti agitavi, spingevo avanti e indietro la carrozzina» p. 43); salvezza perché l’inchiostro sul bianco era consolazione e interrogazione sempre più profonda («Mi è un poco di consolazione questo colloquio. Lo scrivere mi è sempre stato di conforto», p. 50). Anche i ricordi sono ferite che insieme sanguinano e sanano («Mi feriscono sino a farmi stillar sangue questi ricordi, e tutte le cose tue, le tue fotografie che non posso neppur guardare», p. 46) e c’è una grazia delicata che rievoca gli aspetti più quotidiani della vita in famiglia: «A casa, dopo aver finito di desinare, mi sono alzato da tavola e ho aiutato a sparecchiare riportando le stoviglie in cucina. Appena uscito nel corridoio, mi sei tornato davanti agli occhi te che pure aiutavi a portar via le stoviglie dopo mangiato: uno dei pochi servizi che tu ed io – diceva sempre tua mamma – facevamo» (p. 75).
Le ultime pagine del racconto si trasformano in preghiera. Hanno un passo salmodiante. La tenebra resta, ma è irradiata dalla Fede: «Sento il bisogno di Te, Dio. Nel silenzio notturno solo di Te mi appago. Al contrario, se non sento, come mi è accaduto in questi due giorni passati, questa mia unione a Te, soffro: un crudo malessere mi pervade. Vorrei precipitare in Te, vivere di Te…» (p. 109). Nella serata di domenica scorsa Doni ha scritto l’ultima pagina del suo colloquio rimasto incompiuto per trent’anni. Avrà potuto finalmente rispondere al desiderio che gli rubava il sonno: «La ferma speranza di ritrovarti Lorenzino: rivedere, ritoccare il tuo giovane corpo; così come gli apostoli Gesù Cristo risorto».