L’ultima impresa, un libro tra Tolkien e l’Apocalisse
Il Pontefice, il Doppio, il Visionario e il Fogna: quattro improbabili “cavalieri dell’Apocalisse” che devono vedersela con un’Italia andata in rovina. In mezzo digressioni filosofiche, storiche, politiche, esistenziali, religiose. È L’ultima impresa, romanzo di Fabio Torriero e che è anche la storia di un percorso spirituale.
I romanzi distopici sono tornati in auge negli ultimi tempi. L’ultima impresa. Italia 2070. In quattro contro l’Apocalisse (Terre Sommerse, 2021) di Fabio Torriero, rientra verosimilmente nella categoria ma sarebbe ingeneroso confinarlo in questo ambito. Questa atipica opera narrativa contiene digressioni filosofiche, storiche, politiche, esistenziali, religiose, che si intrecciano e si susseguono a ritmi avvincenti nel corso di 187 intensissime pagine.
Una chiave di lettura utile è il background dell’autore. Classe 1958, Torriero, giornalista professionista, saggista, docente universitario e spin doctor, è un raro esempio di intellettuale di destra. Nel suo romanzo, troviamo la sintesi di una parabola storica individuale e collettiva, quella dei ragazzi che, alla fine degli anni Settanta, si erano messi di traverso ai miti della loro epoca, addentrandosi in un lungo e accidentato cammino controcorrente.
In questo contesto, nasce la storia dei quattro protagonisti: il Pontefice, che, come io narrante, alla luce della vicenda, si lancia in una seria riflessione sulla propria vita, le gioie, i dolori, le illusioni e i fallimenti, non ultimi l’abbandono della moglie e la rottura con il figlio; il Doppio, “gentile e assassino, dolce e spietato, conservatore e anarchico”, che “quando ci parli, non sai mai a chi parli”; il Visionario, ovvero “lo studioso, il dogmatico, che confonde la realtà col suo pensiero”; il Fogna, un “fisiologico”, grasso in gioventù e in maturità, che “fuma e mangia in quantità industriali”. Quattro improbabili “cavalieri dell’Apocalisse” che devono vedersela con un’Italia andata in rovina, dove ogni quartiere è ormai controllato da gang straniere di nigeriani, albanesi, egiziani, che fanno il bello e il cattivo tempo e hanno potere di vita e di morte sugli autoctoni.
Nel tentativo disperato di ridare vita agli ideali di gioventù, il quartetto si ritrova drammaticamente a confrontarsi con la propria identità personale nel contesto di un universo valoriale ormai dissolto, in cui i vecchi ideali di Patria e Tradizione sono ormai pure chimere, incastonate in un passato struggente e mitizzato. In questo limbo angosciante, i quattro protagonisti percepiscono il crudele richiamo a vivere finalmente il proprio presente e lo fanno lanciandosi in un sorprendente pellegrinaggio laico lungo i cammini rurali dell’Italia centrale. È la loro “ultima crociata”, durante la quale i quattro protagonisti, come una sorta di Compagnia dell’Anello di tolkieniana memoria, armata più di dubbi che di certezze, si metteranno in marcia per i propri ideali.
Un percorso avvincente e struggente, che condurrà il Pontefice, il Doppio, il Visionario e il Fogna per luoghi dalla forte connotazione simbolica ma descritti con spiccato realismo. Lungo la “nuova via Francigena”, il quartetto raggiungerà Greccio, Stroncone, Civitella del Tronto (ultima roccaforte borbonica a cadere), Campigna (luogo sacro dell’infanzia del narratore), fino alla Verna e a San Galgano.
In mezzo, ci sono gli incontri più imprevedibili. I quattro se la vedranno con una comunità Lgbt, con gli adepti di antichi riti egizi, con un gruppo di nostalgici pre-conciliari. La dissoluzione dell’ideologia nella realtà si misura sempre nel confronto con l’altro e, in questo sottile gioco di disillusioni liberanti, le sorprese sono sempre dietro l’angolo: il potenziale alleato può scoprirsi deludente, mentre l’avversario si rivela carico di un’umanità disarmante.
L’ultima impresa è anche la storia di un percorso spirituale: una conversione tardiva, maturata a cinquant’anni, la difficoltà nel trovare una propria dimensione, il faticoso affrancamento da tutte le deformazioni ideologiche della fede. Un guardarsi dentro senza autoindulgenze, nel difficile cammino dell’accettazione di sé stessi e della propria storia. Come Lazzaro, il protagonista entra nel proprio personale sepolcro, per fare infine “spazio a Dio”, il quale “scrive dritto sulle righe storte. Si fa trovare quando non lo cerchi, quando non te lo aspetti e ti porta dove non sai”. È solo in Lui che i fallimenti e i rimpianti di una vita assumono un nuovo senso, perché “il mistero è il senso che non ha bisogno di parole” e “nella terra c’è l’inizio del cielo”.