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BRIGATE ROSSE

Luciano Garibaldi ricorda i nostri anni spezzati

L'omicidio del commissario Calabresi ebbe una decina di padri, ma un solo colpevole (Adriano Sofri) e portò l'Italia nel pieno degli anni di piombo. La serie di fiction Rai fa riaffiorare quel periodo oscuro. Ce ne parla l'autore Garibaldi.

Cultura 18_01_2014
Luigi Calabresi

La serie di fiction targate Albatross Entertainment che la Rai sta trasmettendo sugli «anni di piombo» (sei puntate, due dedicate al commissario Calabresi, due al giudice Sossi e due, di prossima visione, a un dirigente d’azienda fittizio che riassume le vittime di quel settore ai tempi del terrorismo brigatista) ha riaperto vecchie ferite e suscitato le prevedibili polemiche. Molti dei protagonisti (negativi) di quei tempi sono sempre vivi e taluni pure in cattedra. Certi loro simpatizzanti continuano a dar lezioni sui media e perfino nelle scuole. Ancora oggi, da una parte ci sono le associazioni delle vittime (poliziotti, superstiti e parenti) e quanti non hanno mai smesso di indignarsi. Dall’altra, i nostalgici di quegli anni «formidabili». La fiction sulla vicenda del commissario Calabresi è stata liberamente tratta da un libro di Luciano Garibaldi, cronista in prima linea durante quei fatti e depositario di molteplici fonti e rivelazioni. Anche quella sul rapimento del procuratore Mario Sossi si ispira a un  suo libro, libro che Garibaldi scrisse a due mani proprio con Sossi, il primo giudice a finire nel mirino delle Brigate Rosse. Poiché Luciano Garibaldi è anche un amico, oltre che un collega, abbiamo preferito fare due chiacchiere direttamente con lui.

Ti risulta che qualcuno di quelli che firmarono la petizione degli 800 su «L’Espresso» e che definivano Calabresi “torturatore” si sia scusato? E, se sì, chi?

L’unico, a quanto mi risulta, è stato Paolo Mieli, dimostrando in tal modo la sua natura di persona per bene e responsabile. Alcuni altri, se non erro, hanno cercato di far credere che il loro nome fu aggiunto alla lista senza il loro consenso, ma fanno ridere i polli, perché – se così fosse stato – avrebbero dovuto inviare la smentita allora, e non 43 (quarantatré!) anni dopo.

Credi che fosse in atto una “strategia della tensione” per una svolta conservatrice in Italia? E a chi poteva interessare, agli Usa?

Una “strategia della tensione” non fu mai in atto in Italia. Furono invece concepiti e – sia pure dilettantescamente – programmati alcuni colpi di scena (poi ribattezzati magniloquentemente “colpi di Stato”) per porre un freno alla deriva sinistroide che dalle piazze studentesche rischiava di estendersi alle fabbriche e ai sindacati. I protagonisti (Edgardo Sogno, Junio Valerio Borghese, Amos Spiazzi e pochi altri) erano degli idealisti che non tennero mai nel dovuto conto il controllo che le due superpotenze (URSS e USA) esercitavano di fatto sul nostro Paese. Ciò che entrambe le superpotenze vollero sempre evitare fu che l’Italia scivolasse su posizioni autonomiste e indipendentiste, di qualsivoglia colore. Insomma, no a supergoverni di destra, no a supergoverni di sinistra e, meno che mai, no alle “convergenze parallele”. Per questo il KGB lanciò un monito a Enrico Berlinguer facendolo travolgere da uno dei suoi mitici TIR bulgari, e la CIA incaricò il Moretti di turno (c’è sempre un Moretti nelle pagine-chiave della storia contemporanea d’Italia) di far fuori Aldo Moro, deciso a governare in accordo con il PCI e per un’Italia più libera.

Va bene che le fiction non sono documentari, ma ti sembra che quella su Calabresi abbia reso giustizia ai fatti?

Senza il minimo dubbio. Lo ha riconosciuto anche il figlio del commissario, Mario, direttore de «La Stampa». A parte alcune licenze prive di importanza (un manifesto sbagliato, l’età del protagonista non coincidente con quella del trentaquattrenne Luigi Calabresi), la fiction rispetta rigorosamente la verità storica. Quanto alla verità giudiziaria (chi mise la bomba in piazza Fontana? perché e come morì veramente Giuseppe Pinelli?), decine di procedimenti penali e anni e anni di sentenze non sono riusciti a giungere ad una conclusione definitiva.

Credi che Sofri si sia addossato colpe non sue?

L’ho anche scritto. E più d’una volta. Sono stato sempre convinto che Sofri non abbia dato l’ordine, ma abbia detto sì alla richiesta di Leonardo Marino che voleva sapere da lui se davvero bisognava uccidere Calabresi. Adriano Sofri è sempre stato fortemente antipatico ai comunisti italiani servi della Russia bolscevica. Li ha sempre contestati, ha fatto sempre di testa sua, è stato - a suo tempo - un socialista rivoluzionario italiano, un estremista, impersonando in tal modo ciò che maggiormente i comunisti ortodossi odiano. Ovvero l'antico “pas d'ennemis à gauche” della Parigi del 1871. Dunque, Sofri era il nemico “à gauche” del PCI e, come tale, doveva essere neutralizzato, eliminato, distrutto. Come i comunisti hanno fatto sempre con tutti i loro ribelli: dai francesi della «Comune», a Trotzkj, agli anarchici di Barcellona. Ecco perché la sinistra ufficiale italiana (PCI, poi PDS, poi DS) non ha mai veramente mosso un dito perché Sofri tornasse in libertà. E' stato un libero rivoluzionario, un giacobino che ha rotto i cosiddetti al Partito, e dunque, per il Partito, è giusto che paghi. Questa, beninteso, la mia valutazione politica. Che mi ha spinto più volte, già in passato, a dichiararmi favorevole alla grazia per lui (la prima volta - ricordo - la sollecitai in cambio di analogo provvedimento per Erich Priebke). Questa mia convinzione nasce prima di tutto dalla constatazione che Adriano Sofri è l'unico che ha pagato per un delitto con almeno ottocento padri, tanti quanti furono i firmatari della dichiarazione che accusava il commissario Luigi Calabresi di avere gettato dalla finestra l’anarchico Pinelli, e ritenevo estremamente contradditorio il fatto che Sofri, il quale aveva al suo attivo ormai un quarto di secolo di onestà intellettuale e civile, fosse in galera, mentre Dario Fo, autore della pièce teatrale Morte accidentale di un anarchico, fosse addirittura assurto al Premio Nobel. Ma non era tutto. Convinto che gli ostacoli fino a quel momento posti sul cammino verso la sua scarcerazione provenissero soprattutto da quelle forze di sinistra che si erano sentite, a suo tempo, scavalcate, nella loro ottusa ortodossia marxista-leninista-bolscevico-sovietica, dal delirio rivoluzionario di Sofri e dei suoi amici, avevo proposto un appello ad un gruppo di intellettuali "monarchico-fascisti" - come li definirebbe Sofri stesso - affinché egli potesse attendere, da uomo libero, e non più da carcerato - e pertanto, sia pur parzialmente, a spese di noi contribuenti - alla sua valida e apprezzata attività di pubblicista e scrittore. Nessuno firmò, perché alla destra manca spesso la fantasia. Per concludere, su questa domanda, non sarebbe male avere il contributo del collega giornalista Gian Piero Mughini (a suo tempo direttore responsabile del foglio «Lotta Continua», ndr), il quale - se non sbaglio - qualche tempo fa dichiarò che i responsabili della morte di Calabresi “erano state dieci persone” e che Sofri si era accollato la colpa di tutto - così disse Mughini - per non tradire i suoi amici. Il che - tra l'altro - ritengo confacente alla personalità di Sofri. Insomma, per parafrasare Sciascia (ne Il giorno della civetta, ndr), egli non è certamente un “ominicchio” né un “quaquaraquà”. Si può discutere tra “uomo” e “mezzo uomo”.  

Per quanto riguarda Sossi, perché fu rapito?

La risposta è semplicissima.  Perché era ormai da tempo obiettivo di velenosi strali anche da parte della stampa di sinistra, che a Genova andava per la maggiore. Aveva messo sotto processo alcuni giornalai che nelle loro edicole esponevano vistosamente periodici  a sfondo sessuale. La sua personalità si era imposta in alcune gravi occasioni di confronto tra i poteri dello Stato, come quando aveva preso netta e chiara posizione contro lo sciopero dei magistrati («i rappresentanti dei poteri dello Stato, esecutivo, legislativo e giudiziario, non possono legittimamente scioperare esercitando essi "funzioni" e non "servizi"»), come quando si era pronunciato a favore della separazione delle funzioni requirenti da quelle giudicanti (e ciò in netta contrapposizione con le posizioni ufficiali dell'Associazione Magistrati) e come quando si era detto favorevole al principio della meritocrazia anche per le toghe. Ma soprattutto, nella sua qualità di PM, aveva chiesto e ottenuto l’ergastolo per i membri della banda «22 Ottobre», facente parte dei GAP di Feltrinelli, responsabili di avere ucciso a pistolettate il fattorino Alessandro Floris, che cercava di opporsi ad una loro rapina a mano armata. Perciò chiesero la scarcerazione dei loro compagni in cambio della vita del magistrato sequestrato.

Tu hai scritto con lui il libro «Nella prigione delle Brigate Rosse» quattro anni dopo il suo sequestro, ossia nel 1978, libro adesso riedito dalla Ares e dal quale è stata liberamente tratta la fiction. Che tipo è Sossi?

Un italiano di cui viene spontaneo dire: ce ne fossero. Un coraggioso (non per nulla ex ufficiale degli Alpini, e – com’è noto – chi è Alpino una volta lo resta per sempre). Un cultore delle virtù cristiane e civili. Un esemplare padre di famiglia e marito cui non è mancato il grande dolore di avere perduto l’amata moglie Grazia, da tempo gravemente ammalata, proprio alla vigilia della proiezione sugli schermi della fiction. Ma soprattutto un magistrato esemplare, come attesta la sua carriera senza ombre: da pretore di provincia fino alla presidenza di sezione della Suprema Corte di Cassazione.

Ancora oggi, di latitanti “di piombo” ce ne sono diversi. Pietrostefani è in Francia. Battisti in Brasile. I maligni dicono che quei governi se ne sbarazzerebbero volentieri ma che quello italiano teme che, se estradati, qualche toga italica potrebbe rimetterli in libertà e magari condannare il nostro governo al risarcimento. Che ne pensi?

Condivido i timori dei “maligni”, pur non considerandomi né “maligno” né “benigno”.